monicasomma Sab Gen 28, 2012 6:38 pm
Quando pensavo ad un bambino autistico immaginavo "un essere" chiuso nel suo mondo incapace di entrare in relazione ed empatia con gli altri. Una persona destinata alla solitudine se non alla sola compagnia della disperazione dei genitori. Fortunatamente mi sono dovuta ricredere, questo non solo grazie alla testimonianza di Nunzia ma anche attraverso la lettura di quanto segue.
Ho avuto l’occasione di leggere la storia di Temple Grandin, una donna speciale in grado di parlare in prima persona di una malattia che per antonomasia di solito nasconde il suo volto dietro un velo impenetrabile.
Mrs.Grandin è una donna autistica di 55 anni che ha una carriera internazionale di successo nell’ambito della progettazione di apparecchiature zootecniche.
Ha conseguito il Dottorato in Zootecnica presso l’Università dell’Illinois ad Urbana ed è ora Assistente Universitaria in Zootecnica presso l’Università Statale del Colorado.
Riporto di seguito la sua testimonianza...consiglio alle mie colleghe di leggere il libro.
Prima di tutto le ho chiesto quando ha cominciato a rendersi conto di essere una persona affetta da autismo.
Quando le fu diagnosticato l’autismo e da chi ?
"Mi è stato diagnosticato l’autismo per la prima volta all’età di circa 4 anni, ma i miei ricordi in merito partono dall’età di 15 anni, perché non avevo un’idea chiara di cosa fosse l’autismo quando ero piccola (la diagnosi originaria era stata di danni cerebrali, perché all’epoca i medici non avevano ancora sentito parlare di autismo). La diagnosi ci fu fornita dal medico, ma furono i miei familiari ed insegnanti, e successivamente altre persone, a dirmi che ero affetta da Autismo. Sebbene la diagnosi mi fosse stata fatta a 4 anni, da piccola non sapevo di soffrire di Autismo. Sapevo di avere problemi ad imparare a parlare. Ero sicuramente consapevole di questo e il non riuscire a parlare era davvero frustrante. Quando gli adulti mi rivolgevano direttamente la parola, capivo tutto quello che mi dicevano, ma non riuscivo ad esprimermi a parole. Era come una grossa forma di balbuzie. Se venivo messa in una situazione leggermente stressante, le parole a volte riuscivano a superare la barriera e venivano fuori. La mia logopedista sapeva come intromettersi nel mio mondo. Mi tirava su il mento obbligandomi a guardarla negli occhi e a dire “palla”.
Se la logopedista aveva una presa troppo forte, facevo i capricci, e se non si intrometteva abbastanza a fondo non facevo alcun passo avanti. Mia madre e i miei insegnanti si chiedevano perché io gridassi. Gridare era l’unico modo che avevo per comunicare. Spesso pensavo fra me in maniera logica: “Adesso sto per gridare perché voglio dire a qualcuno che non voglio fare qualcosa”. Inoltre, non mi rendevo conto del fatto che pensavo in maniera differente: io penso per immagini e ritenevo che tutti pensassero interamente per immagini fino a quando non ho interrogato parecchie persone diverse circa i loro processi di pensiero. Chiedevo alle persone di pensare a qualcosa: tipo al campanile di una chiesa. Ciò che la gente in genere pensa e vede è come una specie di immagine generica e standardizzata di una chiesa, mentre, quando lo faccio io, vedo con l’immaginazione una serie di “video” di diverse chiese che ho visto. Vedo tutta una serie di specifici campanili di chiese. Il mio concetto di “campanile” consiste in una serie di “video” di chiese che ho visto. Non esiste una concetto generico di chiesa. Se continuo a pensare a delle chiese, posso manipolare le immagini “video”. Posso mettere della neve sul tetto della chiesa e immaginare come il parco annesso alla chiesa appaia durante le varie stagioni. Non capivo perché fossi diversa, perché non fossi socievole.