psicopedagogia2011

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Forum didattico del corso di Psicopedagogia dei linguaggi a.a.2011-12 a cura di F. Briganti Stanza di collaborazione del gruppo classe


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    EMANUELA RISOLUTO
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  EMANUELA RISOLUTO Ven Feb 24, 2012 5:32 pm

    TESTO:"BEN-ESSERE DISABILI"
    RELAZIONE SUL CAPITOLO 7 "EDUCARSI AL BEN-ESSERE".


    L'educazione inclusiva riguarda il ben-essere di tutti i bambini,fornendo una cultura e una pratica in cui tutte le
    barriere possono essere rimosse definitivamente.
    Edgar Morin afferma che bisogna insegnare le regole del vivere e convivere sociale;poichè,in questo Terzo Millennio
    sembra che insegnare a stare bene sia una emergenza della società.
    Lo stare bene si può insegnare attraverso un approccio educativo che consente ai soggetti di costruire da soli il proprio
    personale ben-essere,dando importanza alla sfera soggettiva.
    Chi vive la condizione dello stare bene è colui che si sente bene vivendo consapevolmente la propria vita.
    Oggi,ancora più,rispetto al passato,la scuola ha un compito fondamentale nella società,ovvero quello di insegnare le
    regole del vivere.
    La scuola,una delle agenzie educative,rappresenta il luogo in cui gli alunni sperimentano non solo i processi di
    apprendimento ma,allo stesso tempo,si misurano con le difficoltà che la vita propone.
    Di conseguenza,il clima scolastico influenza la qualità della vita di un soggetto,nonchè la percezione del ben-essere
    e della salute.
    Sul fronte educativo è evidente l'impegno dei sistemi formativi e dell'istruzione che sin dall'infanzia dovrebbero
    prevenire i rischi o gli stati di frustrazione;in tal senso,bisogna mettere in atto strategie educative che aiutino
    i soggetti.
    Il problema consiste nel far capire ai soggetti che è importante progettare il proprio ben-essere e che bisogna
    padroneggiare tutte le circostanze della propria vita;e per far sì che avvenga tutto ciò,bisogna star bene in primis,
    psichicamente e poi,è indispensabile il ben-essere globale dell'individuo.
    Appare perseguibile l'idea di una pedagogia del ben-essere che punti a generare nei soggetti comportamenti positivi
    nei confronti del proprio ben-essere esistenziale.
    L'ICF elabora il concetto di salute come un concetto aperto all'istruzione e al lavoro;quindi,lo stesso Canevaro,
    afferma che il concetto di salute non è ristretto sulla malattia ma,implica una visione più aperta della qualità del
    ben-essere e della vita.
    A tal senso,l'interesse è rivolto a quello che potrà fare un soggetto che introduce mutamenti nella propria vita.
    Vygotskij con il relativismo culturale afferma che,grazie alle diverse culture,il soggetto,senza una grande capacità,
    può in un'altra cultura progredire sempre più.
    Oggi,un individuo vive molte vite insieme,cioè ricopre più ruoli contemporaneamente e,questo è un potenziale che si
    presenta nelle società complesse;ma,nello stesso tempo,è un potenziale che configura nuove diseguaglianze.
    Secondo un educatore dal nome Tesser,il terreno su cui bisogna lavorare è il terreno dell'esperienza;cioè significa
    costruire opportunità in cui il soggetto mantiene relazioni con l'ambiente circostante,poichè solo in questo modo
    si può fare esperienza di ben-essere.
    Infatti,l'educatore deve educare i soggetti al ben-essere,facendolo emergere e soprattutto riconoscere.
    Attraverso i programmi dell'UNESCO,si implementano l'insegnamento di specifiche abilità di vita che sono "imparare
    ad essere"e "imparare a vivere insieme",oltre al conoscere e al fare;si suppone che i soggetti con le loro caratteristiche
    personali e all'interno di un set di opportunità economiche e sociali,useranno le loro risorse per raggiungere gli
    obiettivi.
    Quindi,la capability di una persona riguarda il grado di libertà che questa persona può raggiungere ed il suo potere di
    scelta tra varie opzioni di vita.
    Quindi,l'attenzione su capabilities rendono possibile superare situazioni di crisi e di contribuire alla capacità del
    soggetto di resilienza e di generazione di un futuro migliore.
    In particolare,le life skills propongono la promozione della salute e del ben-essere e,presumo,siano importanti per i
    soggetti in ogni ambito sociale,perchè considera e tutela la salute fisica e mentale,permettendo di favorire il
    potenziale di salute e di ben-essere.
    Infine,soprattutto nell'infanzia e nell'adolescenza,le life skills facilitano lo sviluppo delle competenze emozionali
    per gestire con efficacia le relazioni interpersonali.


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Mariangela Di Bennardo Ven Feb 24, 2012 5:45 pm

    gruppo formato da: Mariangela Di Bennardo e Fiore Valentina

    Ben-essere Disabili, Capitolo quinto: Valutare Attività & Partecipazione

    Una premessa centrale dei passaggio dal modello medico al modello sociale di disabilità è l'importanza della partecipazione sociale della persona con disabilità infatti col modello medico il deficit veniva visto solo da un punto di vista organico mentre con quello sociale (modello bio-psicosociale) l'interazione della persona con l'ambiente è determinante…entra in gioco il fattore della partecipazione (passaggio dall’ICIDH all’ICF). Le scuole Costituiscono un ambiente primario per l'educazione e la socializzazione dei bambini e dei ragazzi..Finn elabora un l modello di abbandono scolastico (1989) considerando la mancanza di partecipazione nelle attività scolastiche come principale causa dell'abbandono scolastico. La par¬tecipazione conduce a una maggiore probabilità di esperienze di successo,condizione essenziale affinchè avvenga l'apprendimento.
    Affinché la piena partecipazione alla vita scolastica avvenga in soggetti disabili,c’è bisogno di una politica dell'inclusione che viene ostacolata o favorita dai fattori ambientali
    , la partecipazione per due individui con la stessa condizione sottostante di disabilità può essere facilitata o ristretta dalla natura e dall'accessibilità dell'ambiente.Come promuovere la partecipazione?Prima di tutto fornire un setting d’apprendimento quanto più accogliente possibile e favorire delle strategie d’inclusione puntando al gioco collettivo; il gioco può essere utilizzato anche come strumento formativo per raggiungere l’obiettivo finale dell’autonomia del disabile. La partecipazione deve essere soggetta anche ad una valutazione che inizia con un’osservazione diretta o self – report; questo solleva la questione di sviluppare questionari appropriati all'età, in termini di item e del metodo di risposta, tenendo conto soprattutto delle particolari menomazioni che il bambino potrebbe avere. A tal proposito è stata pensata una gamma di strumenti per misurare gli aspetti della disabilità nei bambini, alcune individuate per valutare l'impatto di specifiche condizioni e altre per catturare le dimensioni centrali tra varie condizioni; variano in termini di dell'età, contenuti, e formato di somministrazione. Il più efficace tra questi è il “Capability Approach” che descrive la capacità di una persona e le opportunità tipicamente of¬ferte dai fattori ambientali ;per i bambini disabili il set di capacità può essere ristretto a causa delle loro incapacità (menomazioni) o essere limitato dal loro ambiente fisico o sociale.Esso rappresenta la situazione concreta che il soggetto deve affrontare con le sue difficoltà fornendo un modello per graduare la misura della partecipazione e valutando se un bambino può portare a termine un'azione in una situazione di vita. Dal momento che la risposta varierà in seguito alle circostanze, le categorie di risposta probabilmente costituiranno una frequenza di ciò che il bambino ha l'opportunità di fare o non fare.
    A nostro avviso i servizi si dovrebbero impegnare a promuovere quanto più possibile la partecipazione e lo sviluppo delle capacità dando così ai bambini possibilità di scelta e auto¬nomia. Teoricamente sono molti i riferimenti a cui possiamo attingere ma nella realtà ci troviamo di fronte situazioni davvero problematiche a cui spesso è difficile cercare una giusta soluzione.
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty Uno sguardo oltre... la disabilità

    Messaggio  Ilaria Silletti Ven Feb 24, 2012 6:23 pm

    Nonostante adesso si usi l'espressione "diversamente abile" nel senso comune l'idea che si ha di queste persone purtroppo non è cambiata; consideriamo infatti tali persone "inabili a fare qualcosa".
    In effetti non si può dare una definizione univoca di disabilità, infatti tale termine è soggetto a mutevoli accezioni a seconda della disciplina che lo studia e lo interpreta, ma anche a seconda degli scopi che si vogliono perseguire. Definire la disabilità è però un compito fondamentale poichè le politche sociali, i governi e le organizzazioni internazionali devono considerare la natura multisfaccettata di questa dimensione.
    Molti studiosi, tra cui Pfeiffer, hanno riconosciuto che nessun singolo modello è in grado di spiegare totalmente la disabilità; ciascun modello di disabilità infatti può portare un'utile prospettiva su di essa in un dato contesto.
    Un modello significativo per definire la disabilità, comprendere le sue cause e le possibili conseguenze economiche ad esse collegate è quello della capability sviluppato da A.M. Sen. Tale modello è stato utilizzato in ambito internazionale per analizzare il collegamento tra disabilità, discriminazione di genere e povertà. La sua utilità nel definire la disabilità però non è stata ancora presa sufficentemente in considerazione.
    Come abbiamo capito il tema della disabilità si colloca in una prospettiva che intreccia elementi sociali, culturali e politico-istituzionali; diversi modelli sono stati creati per definire la disabilità; quelli più diffusi sono il modello biomedico, quello sociale e quello biopsicosociale.
    Il modello biomedico considera la disabilità come un problema dell'individuo che è direttamente causato dalla malattia, e richiede cure mediche in forma di trattamento o riabilitazione. Quindi tale modello è fortemente normativo perchè le persone sono considerate disabili sulla base delle loro incapacità.
    Sul modello biomedico è stato costruito l'ICDH che però è stato criticato per vari motivi; uno tra questi è che il concetto di menomazione e normalità sono fenomeni sociali, e sono soggetti a trasformazioni nel tempo; il secondo motivo riguarda il corpo umano che è flessibile ai fattori fisici e sociali appartenenti agli ambienti che ci circondano; terzo motivo riguarda il fatto che menomazione, disabilità ed handicap sono immutabili. In sintesi il modello ICDH non riconosce il ruolo giocato dall'ambiente nella disabilità.
    Il modello sociale, invece, tiene in considerazione una serie di condizioni, attività e relazioni molte delle quali sono create dall'ambiente sociale, quindi la disabilità viene vista come un costrutto sociale.
    Il modello biopsicosociale tiene conto dei fattori psicosociali e ritiene che la diagnosi medica debba considerare una molteplicità di aspetti che vanno da quelli biologici a quelli sociali. Secondo tale modello viene messo in primo piano il concetto di empowerment, potere, ovverosia il ruolo della persona nella gestione della propria salute capace di controllo e autogestione. Da questo modello nasce l'ICF. L'ICF descrive il funzionamento umano e decrementi nel funzionamento come il prodotto di un'interazione dinamica tra varie condizioni di salute e fattori contestuali. All'interno dell'ICF il termine condizione di salute è usato per rappresentare le malattie, i disordini, il danno e le anomalie congenite. Questo è l'unico modello concettuale di disabilità che si avvicina a fornire un concreto sistema di classificazione degli individui.
    Un ulteriore modello di analisi è il "Capability Approach" che si concentra sul concetto di vulnerabilità, adottando una prospettiva inclusiva e di empowerment. Tale modello riesamina l'interazione tra l'individuo e i modelli sociali di disabilità poichè riconosce la diversità umana, non segrega i gruppi vulnerabili e guarda alle condizioni di vulnerabilità come ad un fenomeno multidimensionale e dinamico; si può affermare dunque che il capability si interessi del benessere della persona. Tale approccio promuove una prospettiva egualitaria in cui i diritti non dipendono dall'origine causale della disabilità; quindi in termini di capability, se una disabilità è biologicamente o socialmente causata, come tale non importa; ciò che importa è lo scopo dell'intera serie di capacità da cui una persona può scegliere e il ruolo che la menomazione e la disabilità giocano in questa serie di libertà. E' giusto a tal punto sottolineare che la convenzione sui diritti delle persone con disabilità nell'articolo preliminare sottolinea come "liberarsi dalla disabilità significa avere la possibilità di scegliere, non vivere la vita in conformità a qualche nozione predefinita di normalità."

    Ilaria Silletti, Maria Santoro
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Francesca Rivetti Ven Feb 24, 2012 6:30 pm

    Gruppo composto da
    Antonella Mastropietro
    Francesca Rivetti

    Relazione sul capitolo 1 "Ben-essere nella disabilità", testo "Ben-essere Disabili".

    Da sempre la psicologia e le scienze sociali si sono preoccupate di indagare gli aspetti negativi dell’esperienza umana: il compito principale di tali discipline era quello di approfondire lo studio su quei fattori ostacolanti o limitanti il vivere bene. La ricerca, dunque, ruotava intorno a domande del tipo: come alleviare disturbi o malattie? Come ridurre la sofferenza? Riflettendo, l’accento era posto sul “negativo” piuttosto che sulle emozioni, ed i fattori positivi delle varie condizioni di vita. Perciò, ci chiediamo perché la ricerca non si è mai domandata: come incrementare questa condizione positiva? Come potenziare una situazione favorevole? Tali discipline consideravano, di fatto, gli aspetti positivi della condizione umana come elementi di secondaria importanza rispetto all’ “obbligo”, al “dovere morale” di cercare di spiegare le cause che portavano gli uomini a soffrire. Eppure, approfondire la conoscenza sul benessere non ignora la sofferenza umana ma tenta di prevenirla e alleviarla attraverso la promozione di una buona salute, resilienza e crescita psicologica. Un’inversione di tendenza si è avuta con l’avvento della Psicologia Positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000) che, nell’ultimo decennio, ha posto la sua attenzione a quelle situazioni che sono fonte di felicità. Come definire la felicità? Le posizioni e le teorie a riguardo sono tantissime e non giungeremmo mai ad un punto conclusivo. È un tema, variamente teorizzato, presente dall’inizio dei secoli in ogni sistema culturale e ciascuno conferisce a tale termine un significato differente. In tale sede, la nostra disamina tende a concentrarsi su quanto e, soprattutto, “se” la felicità può essere assimilata al concetto di benessere. “Io sono felice” può avere lo stesso significato di “io sto bene, io vivo bene”? Anche se è possibile riscontrare sottili differenze, crediamo di poter trovare punti in comune tra queste due nozioni se pensiamo che lo stato di ben – essere può essere un fattore determinante soddisfazione ed emozioni positive nella vita. Proprio lo studio del benessere e della qualità della vita sono i centri dì interesse della Positive Psycology. Inizialmente questi concetti vennero analizzati a partire da indicatori oggettivi quali il reddito, la salute fisica, le condizioni abitative ed i ruoli sociali. Attraverso ricerche successive, si è ,invece, compreso che l’indice nazionale di valutazione del benessere non può e non deve basarsi esclusivamente su quegli indicatori ma anche sul benessere psicologico e sociale degli individui. Riteniamo, difatti, che non può essere stabilito a priori in modo unitario: è un concetto relativo in quanto ogni persona ha una propria visione che è strettamente legata alla cultura e al sistema sociale di appartenenza. Dato il carattere soggettivo che assume il benessere, il suo studio non può assolutamente passare in secondo piano. Il fine è quello di individuare dei metodi che possano rendere in grado gli individui di aumentare il loro livello di benessere. Pertanto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha prefissato come obiettivo principale della medicina la promozione della salute intesa come “ben-essere fisico, psicologico e sociale”. A questo punto ci chiediamo quanto questo concetto può essere esteso anche in presenza di malattie temporanee o croniche. Può un soggetto con disabilità vivere “bene”? Può contemplare una o più forme di ben-essere? Noi crediamo di si e diversi filoni di ricerca hanno lavorato e lavorano tuttora secondo tale prospettiva. Essi hanno un denominatore comune che si fonda sulla necessità di far leva sullo sviluppo delle forze e delle virtù individuali, elementi che gli studi precedenti - volti ad analizzare carenze, deficit e patologie - non mettevano in luce. Ciò rappresenta un autentico capovolgimento di prospettiva: si privilegiano interventi finalizzati alla mobilizzazione delle abilità e risorse della persona, anziché alla riduzione o compensazione delle sue limitazioni. L’ attenzione degli studiosi è, inoltre, posta sulla relazione tra benessere del singolo e sviluppo della collettività, svincolandosi dall'angusto approccio individualistico che spesso caratterizza le ricerche psicologiche e mediche. Secondo Canevaro, infatti, il benessere non è legato esclusivamente alla condizione individuale autarchica, quanto a quello che oggi è definito come “capitale sociale” ovvero l’insieme delle capacità che ciascuno ha di organizzarsi e di adattarsi grazie ad elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. Antonella Delle Fave afferma che è importante considerare ciascun individuo come un agente attivo di cambiamento e sviluppo della comunità; ma questo vale non solo per quei soggetti perfettamente “adattati”, “abili”, “capaci” ma per tutti, anche per i cosiddetti gruppi svantaggiati. Seguendo questa linea di pensiero, a questo punto, è evidente quanto lo svantaggio non dipenda essenzialmente dal soggetto in sè ma piuttosto da una serie di fattori esterni. Il soggetto diventa svantaggiato in un ambiente sociale o culturale in cui la propria condizione si scontra con le aspettative o le regole sociali, comportando conseguenze svantaggiose. In virtù di ciò, ciascun individuo deve essere incoraggiato ad usare efficacemente i propri talenti e punti di forza. All’inizio, l’obiettivo principe non era certo quello di promuovere il benessere dei soggetti con disabilità, tentando di far vivere loro esperienze e situazioni positive, ma l’assistenza aveva finalità prettamente caritatevoli, e le istituzioni a questo incaricate, anziché favorire l’accettazione e l’inclusione di tali soggetti nella società, ne favorivano l’esclusione sempre maggiore. Successivamente il concetto di normalizzazione ha condotto a politiche sempre più integrative. Costruire a partire dai soggetti e dalla forza che essi esprimono, piuttosto che dalle loro debolezze, è una sostanziale inversione di tendenza rispetto agli interventi tradizionali che consegnavano al soggetto un senso di impotenza e di inadeguatezza rispetto al problema. In questa prospettiva, quindi, ciascun individuo deve essere incoraggiato a seguire il proprio percorso di complessità e condivisione, ad usare efficacemente i propri talenti e punti di forza, a perseguire l’autodeterminazione attraverso l’esercizio della libertà e della responsabilità. Dunque la promozione del benessere dei soggetti disabili è strettamente legata alla capacità di autonomia. L’aiuto esterno deve consistere nel facilitare l’accesso all’impalcatura relazionale sul quale l’aiuto mutuale può svilupparsi. Secondo l’approccio sostenuto dalla psicologia positiva, l’aspetto relazionale gioca un ruolo strategico in virtù dell’idea del ben – essere non come uno stato individuale quanto come un progetto dinamico da condividere con gli altri, un percorso variabile fatto di tappe in cui anche gli avvenimenti negativi vanno accolti come positivi nel proprio percorso di “empowered”. Questo ci induce a compiere un’ attenta riflessione sull’aspetto educativo e sul ruolo che gli insegnati dovrebbero avere nell’educazione di tutti i bambini. Bisognerebbe favorire, più di ogni altra cosa, un atteggiamento positivo nei confronti di tutte le esperienze di vita per essere in grado di gestire le proprie scelte ed adattare comportamenti diretti alla propria felicità. C’è ormai, infatti, la convinzione che “imparare a star bene” possa essere insegnato: ciò vuol dire che ognuno ha potenzialità di decidere di essere ciò che vuole e ruolo dell’educazione è quello di permettere l’attivazione di questo potenziale attraverso la creazione di un ambiente “facilitante”. Il benessere è un diritto divenuto legittimo, che può essere esercitato quanto più le persone vengono aiutate a far leva sulle proprie risorse e potenzialità, a sviluppare la capacità di acquistare forza e potere perché ognuno di noi ha capacità di ben – essere.

    Bibliografia:
    Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    www.psicologiapositiva.it

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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Antonella Mastropietro Ven Feb 24, 2012 6:31 pm

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    Relazione sul capitolo 1 "Ben-essere nella disabilità", testo "Ben-essere Disabili".

    Da sempre la psicologia e le scienze sociali si sono preoccupate di indagare gli aspetti negativi dell’esperienza umana: il compito principale di tali discipline era quello di approfondire lo studio su quei fattori ostacolanti o limitanti il vivere bene. La ricerca, dunque, ruotava intorno a domande del tipo: come alleviare disturbi o malattie? Come ridurre la sofferenza? Riflettendo, l’accento era posto sul “negativo” piuttosto che sulle emozioni, ed i fattori positivi delle varie condizioni di vita. Perciò, ci chiediamo perché la ricerca non si è mai domandata: come incrementare questa condizione positiva? Come potenziare una situazione favorevole? Tali discipline consideravano, di fatto, gli aspetti positivi della condizione umana come elementi di secondaria importanza rispetto all’ “obbligo”, al “dovere morale” di cercare di spiegare le cause che portavano gli uomini a soffrire. Eppure, approfondire la conoscenza sul benessere non ignora la sofferenza umana ma tenta di prevenirla e alleviarla attraverso la promozione di una buona salute, resilienza e crescita psicologica. Un’inversione di tendenza si è avuta con l’avvento della Psicologia Positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000) che, nell’ultimo decennio, ha posto la sua attenzione a quelle situazioni che sono fonte di felicità. Come definire la felicità? Le posizioni e le teorie a riguardo sono tantissime e non giungeremmo mai ad un punto conclusivo. È un tema, variamente teorizzato, presente dall’inizio dei secoli in ogni sistema culturale e ciascuno conferisce a tale termine un significato differente. In tale sede, la nostra disamina tende a concentrarsi su quanto e, soprattutto, “se” la felicità può essere assimilata al concetto di benessere. “Io sono felice” può avere lo stesso significato di “io sto bene, io vivo bene”? Anche se è possibile riscontrare sottili differenze, crediamo di poter trovare punti in comune tra queste due nozioni se pensiamo che lo stato di ben – essere può essere un fattore determinante soddisfazione ed emozioni positive nella vita. Proprio lo studio del benessere e della qualità della vita sono i centri dì interesse della Positive Psycology. Inizialmente questi concetti vennero analizzati a partire da indicatori oggettivi quali il reddito, la salute fisica, le condizioni abitative ed i ruoli sociali. Attraverso ricerche successive, si è ,invece, compreso che l’indice nazionale di valutazione del benessere non può e non deve basarsi esclusivamente su quegli indicatori ma anche sul benessere psicologico e sociale degli individui. Riteniamo, difatti, che non può essere stabilito a priori in modo unitario: è un concetto relativo in quanto ogni persona ha una propria visione che è strettamente legata alla cultura e al sistema sociale di appartenenza. Dato il carattere soggettivo che assume il benessere, il suo studio non può assolutamente passare in secondo piano. Il fine è quello di individuare dei metodi che possano rendere in grado gli individui di aumentare il loro livello di benessere. Pertanto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha prefissato come obiettivo principale della medicina la promozione della salute intesa come “ben-essere fisico, psicologico e sociale”. A questo punto ci chiediamo quanto questo concetto può essere esteso anche in presenza di malattie temporanee o croniche. Può un soggetto con disabilità vivere “bene”? Può contemplare una o più forme di ben-essere? Noi crediamo di si e diversi filoni di ricerca hanno lavorato e lavorano tuttora secondo tale prospettiva. Essi hanno un denominatore comune che si fonda sulla necessità di far leva sullo sviluppo delle forze e delle virtù individuali, elementi che gli studi precedenti - volti ad analizzare carenze, deficit e patologie - non mettevano in luce. Ciò rappresenta un autentico capovolgimento di prospettiva: si privilegiano interventi finalizzati alla mobilizzazione delle abilità e risorse della persona, anziché alla riduzione o compensazione delle sue limitazioni. L’ attenzione degli studiosi è, inoltre, posta sulla relazione tra benessere del singolo e sviluppo della collettività, svincolandosi dall'angusto approccio individualistico che spesso caratterizza le ricerche psicologiche e mediche. Secondo Canevaro, infatti, il benessere non è legato esclusivamente alla condizione individuale autarchica, quanto a quello che oggi è definito come “capitale sociale” ovvero l’insieme delle capacità che ciascuno ha di organizzarsi e di adattarsi grazie ad elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. Antonella Delle Fave afferma che è importante considerare ciascun individuo come un agente attivo di cambiamento e sviluppo della comunità; ma questo vale non solo per quei soggetti perfettamente “adattati”, “abili”, “capaci” ma per tutti, anche per i cosiddetti gruppi svantaggiati. Seguendo questa linea di pensiero, a questo punto, è evidente quanto lo svantaggio non dipenda essenzialmente dal soggetto in sè ma piuttosto da una serie di fattori esterni. Il soggetto diventa svantaggiato in un ambiente sociale o culturale in cui la propria condizione si scontra con le aspettative o le regole sociali, comportando conseguenze svantaggiose. In virtù di ciò, ciascun individuo deve essere incoraggiato ad usare efficacemente i propri talenti e punti di forza. All’inizio, l’obiettivo principe non era certo quello di promuovere il benessere dei soggetti con disabilità, tentando di far vivere loro esperienze e situazioni positive, ma l’assistenza aveva finalità prettamente caritatevoli, e le istituzioni a questo incaricate, anziché favorire l’accettazione e l’inclusione di tali soggetti nella società, ne favorivano l’esclusione sempre maggiore. Successivamente il concetto di normalizzazione ha condotto a politiche sempre più integrative. Costruire a partire dai soggetti e dalla forza che essi esprimono, piuttosto che dalle loro debolezze, è una sostanziale inversione di tendenza rispetto agli interventi tradizionali che consegnavano al soggetto un senso di impotenza e di inadeguatezza rispetto al problema. In questa prospettiva, quindi, ciascun individuo deve essere incoraggiato a seguire il proprio percorso di complessità e condivisione, ad usare efficacemente i propri talenti e punti di forza, a perseguire l’autodeterminazione attraverso l’esercizio della libertà e della responsabilità. Dunque la promozione del benessere dei soggetti disabili è strettamente legata alla capacità di autonomia. L’aiuto esterno deve consistere nel facilitare l’accesso all’impalcatura relazionale sul quale l’aiuto mutuale può svilupparsi. Secondo l’approccio sostenuto dalla psicologia positiva, l’aspetto relazionale gioca un ruolo strategico in virtù dell’idea del ben – essere non come uno stato individuale quanto come un progetto dinamico da condividere con gli altri, un percorso variabile fatto di tappe in cui anche gli avvenimenti negativi vanno accolti come positivi nel proprio percorso di “empowered”. Questo ci induce a compiere un’ attenta riflessione sull’aspetto educativo e sul ruolo che gli insegnati dovrebbero avere nell’educazione di tutti i bambini. Bisognerebbe favorire, più di ogni altra cosa, un atteggiamento positivo nei confronti di tutte le esperienze di vita per essere in grado di gestire le proprie scelte ed adattare comportamenti diretti alla propria felicità. C’è ormai, infatti, la convinzione che “imparare a star bene” possa essere insegnato: ciò vuol dire che ognuno ha potenzialità di decidere di essere ciò che vuole e ruolo dell’educazione è quello di permettere l’attivazione di questo potenziale attraverso la creazione di un ambiente “facilitante”. Il benessere è un diritto divenuto legittimo, che può essere esercitato quanto più le persone vengono aiutate a far leva sulle proprie risorse e potenzialità, a sviluppare la capacità di acquistare forza e potere perché ognuno di noi ha capacità di ben – essere.

    Bibliografia:
    Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    www.psicologiapositiva.it
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty BEN-ESSERE DISABILI : capitolo 4 Un problema di classificazione?

    Messaggio  robertariccio Ven Feb 24, 2012 11:13 pm

    Nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti della Persone con Disabilità approvata nel 2006, si riconosce la persona con disabilità come soggetto con diritto alla vita; alla giustizia; alla libertà dalla tortura, dallo sfruttamento, dalla violenza, dall’abuso; alla libertà di movimento, di espressione; all’eguale partecipazione alla vita politica, pubblica e culturale; e all’eguale accesso all’educazione, salute e impiego.
    La Convenzione si inserisce nel più ampio contesto della tutela e della promozione dei diritti umani. Nei suoi principi ispiratori non riconosce “nuovi” diritti alle persone con disabilità, ma intende piuttosto assicurare che queste ultime possano godere, sulla base degli ordinamenti degli Stati di appartenenza, degli stessi diritti riconosciuti agli altri consociati, in applicazione dei principi generali di pari opportunità per tutti. Pertanto è responsabilità degli Stati che ne fanno parte far rispettare tali diritti. In questo contesto nasce la necessità della classificazione in disabilità; una classificazione che, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite, va elaborata a partire da due prospettive diverse, ma allo stesso tempo complementari:
    • Prospettiva della salute pubblica globale
    • Prospettiva dei diritti umani
    La prima prospettiva guarda alla disabilità come una condizione avversa che nel momento in cui se ne conoscono le cause è possibile prevenire.
    La seconda prospettiva invece pone l’accento sulle persone con disabilità come soggetti portatori di diritti; diritti che non si possono considerare speciali, ma sono gli stessi diritti spettanti a qualunque essere umano. Per questo motivo è necessario promuovere politiche che garantiscano a tutti la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
    La classificazione ICF dell’OMS è la dimostrazione che se si guarda a queste due prospettive in un’ ottica di complementarità e collaborazione, si riesce ad elaborare un modello di classificazione che non si configura come un modo ulteriore per sottolineare una disabilità. L’elaborazione di un sistema di classificazione infatti, può generare numerosi problemi tra quali: il rischio di etichettare una persona con disabilità e considerarla solo in relazione a un deficit, a una mancanza di abilità e a una conseguente incapacità di assumere ruoli e responsabilità sociali. Si viene a creare quello che Goffman definisce concetto di stigma; un’etichetta sociale, dal forte valore negativo e discriminatorio, utilizzata per descrivere e identificare una persona. Ritornando al modello di classificazione ICF, questo rappresenta una sintesi perfetta tra le due prospettive sulla disabilità di cui abbiamo appena parlato. L’ICF guarda alla disabilità in relazione alla situazione di salute di una persona che è la risultante globale delle reciproche influenze tra condizioni fisiche e fattori contestuali. È importante specificare che le persone non sono le unità di classificazione dell’ ICF, in quanto essa non classifica le persone, ma descrive la situazione di una persona all’interno di una serie di domini della salute e tale descrizione viene effettuata sempre all’interno del contesto dei fattori ambientali e personali.
    All’interno del testo ci si pone una domanda:
    • Perché la classificazione è utile in ambito educativo?
    È chiaro che i sistemi di classificazione, anche se si presentano in maniera problematica, risultano un valido strumento di organizzazione dell’informazione per la progettazione di percorsi formativi che siano in grado di soddisfare bisogni specifici di un bambino diversamente abile. Resta da chiederci:
    • Quale tipo di sistemi di classificazione dovrebbero essere usati?
    • Per quali scopi dovrebbero essere usati?
    • Quali norme dovrebbero sottostare ad essi?
    Non esiste un unico sistema di classificazione al quale fare riferimento, perché non esiste un sistema universale di classificazione o categorizzazione in educazione. Secondo kirp, il modo in cui un problema sociale viene descritto dice molto di come esso verrà risolto. Questo significa che se in ambito educativo facessimo riferimento a un modello di classificazione unico e universale, per ciascuna persona sarebbe previsto un percorso formativo prestabilito sulla base della sua appartenenza ad una determinata categoria all’interno del sistema di classificazione a cui si fa riferimento. Per i bambini con la stessa disabilità verrebbero progettati medesimi interventi educativi che non è detto risultino essere significativi per tutti in quanto ogni bambino è un essere umano unico e irrepetibile anche nella sua specifica disabilità. A tale proposito la classificazione internazionale delle malattie (ICD) elaborata dall’ OMS, può essere utile per la diagnosi delle malattie e dei disturbi associati alla disabilità, ma sicuramente risulta inadeguata nel fornirci informazioni in merito agli interventi da attuare in ambito educativo. È chiaro che uno degli scopi dell’utilizzo dei sistemi di classificazione in educazione è la necessità di conoscere una serie di informazioni sul bambino per poi fornire interventi mirati e, a tale proposito, l’ICD può costituire un modello di riferimento esclusivamente eziologico. Pertanto oggi, è il sistema di classificazione ICF, a rappresentare il modello diagnostico più valido per una lettura dei bisogni specifici di un bambino diversamente abile in ambito educativo. Tale modello ci fornisce informazioni relative al funzionamento, offrendoci un quadro più ampio e significativo della salute delle persone, utilizzabile quando si tratta di prendere decisioni. Costituisce una mappa che ci aiuta a leggere le diverse situazioni di difficoltà dell’alunno in base ad ambiti specifici che investono la persona:
    • Condizioni fisiche
    • Strutture corporee
    • Funzioni corporee
    • Attività personali
    • Partecipazione sociale
    • Fattori contestuali ambientali
    • Fattori contestuali personali
    Inoltre con la nascita dell’ICF-CY ( Children e Youth ) che rappresenta la versione dell’ICF per bambini e adolescenti, tale sisitema di classificazione si è specializzato ed è riuscito a cogliere le funzioni e le strutture corporee, le attività, la partecipazione e gli ambienti specifici di neonati, bambini, preadolescenti e adolescenti. L’ICF-CY offre una visione olistica del funzionamento umano e pone l’accento alle limitazioni delle attività mettendo in primo piano il ruolo dell’ambiente come barriera o facilitatore del funzionamento del bambino. Si guarda al bambino in relazione a quello che può fare ( fuctionings), quello che non può fare e quello che potrebbe essere in grado di fare (capablities) nel suo ambiente familiare, scolastico e di vita.
    In questa prospettiva è possibile trovare una soluzione al dibattito che si è venuto a creare tra chi sostiene che l’uso di categorie e sistemi di classificazione siano necessari per assicurare la fornitura di servizi educativi appropriati e chi invece, sostiene che questi sistemi possano generare forme di discriminazione sociale. Il problema in effetti non è da riferirsi principalmente alla questione della classificazione, ma a come consideriamo la disabilità all’interno di un sistema di classificazione.
    Reindal, considerando le diverse prospettive sulla disabilità, sostiene di poter concettualizzare il termine differenza in tre modi diversi :
    • Modello individuale: la differenza è una deviazione del normale funzionamento
    • Modello sociale: la differenza è un aspetto della diversità umana
    • Capibility approach:la differenza è una specifica variabile della diversità umana
    L’approccio della capability, considerando la disabilità come una specifica variabile della diversità umana, ritiene che disabile non è un termine da attribuire all’individuo, ma alla situazione che non tiene conto della pluralità dei soggetti e delle loro caratteristiche specifiche. Pertanto se si guarda alla disabilità da questa prospettiva un sistema di classificazione internazionale non si configura come discriminatorio, ma diviene lo strumento attraverso il quale la disabilità si inserisce in una realtà che non si può ignorare.
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    Messaggio  maracascone Sab Feb 25, 2012 10:52 am

    Gruppo formato: Cascone Maria Assunta, Guida Antonella, Rocchetti Daniela, Traettino Angela e Zobel Marika.

    Relazione del capitolo ben-essere disabili.

    “Quando le persone parlano di felicità, generalmente intendono uno stato che comporta sensazioni positive oppure giudizi positivi sulle sensazioni” (Nettle 2007). 
    Secondo Goldwurn il ben-essere soggettivo è l’essenza della qualità della vita, quest’ultima riguarda la soddisfazione per i diversi aspetti della vita e il ben-essere generale. Essa comprende il ben-essere emozionale, relazioni interpersonali e autodeterminazione. Il ben-essere emozionale sembra essere quello più vicino alla felicità. 
    Molte culture distinguono la felicità tra qualcosa di estremamente immediato, come la gioia o il piacere, e qualcosa di più durevole e significativo, come la soddisfazione o l’appagamento. 
    “Se le persone passano molto del loro tempo a riflettere sulla nozione di ben-essere e di felicità, allora questo è un buon motivo per studiarle” (Nettle 2007). Infatti, entrambi i concetti sono parte integrante della storia dell’uomo sin dalla nascita, poiché tutti mirano al raggiungimento degli stessi.
    Entrambi i termini a volte vengono usati senza farne una distinzione ma, per quanto riguarda il ben-essere, questi ha una doppia componente: cognitiva, che valuta la soddisfazione di vita; affettiva, che si divide, a sua volta, nella presenza dell’affetto positivo e nell’assenza dell’affetto negativo. Il ben-essere rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni in continuo cambiamento e riadattamento. Tali concetti devono essere presi in considerazione non solo per le persone “normali” ma anche per coloro che presentano delle disabilità. 
    Quando parliamo di ben-essere e di felicità intendiamo il raggiungimento di un obiettivo prefissato. Ciò non si può ottenere basandosi solo sul singolo individuo, ma occorre prendere in considerazione l’empowerment sociale in quanto l’individuo nasce con un corredo genetico predisposto all’acquisizione di informazioni date dall’ambiente esterno. Il ben-essere ha conseguenze positive sulle emozioni e aiuta a superare le sfide che la vita pone. Ogni essere umano nasce con qualcosa di nuovo e di mai esistito prima poiché ha una propria originalità e unicità, si costruisce e vive, a suo modo, il ben-essere. Quest’ultimo dipende sia dalle componenti fisiche e sia dagli stili di vita e dai contesti sociali. 
    Allora ben-essere e felicità sono la stessa cosa per tutti? In riferimento alle persone disabili il ben-essere deve essere considerato come una dimensione determinata dalla capacità di autonomia e di scelta, per vivere al meglio la propria vita. Attualmente, nella nostra società, non è facile per queste persone essere accettate, hanno difficoltà a raggiungere il ben-essere interiore, la felicità e l’autonomia. Con quest’ultima ci riferiamo, in modo particolare, alle barriere architettoniche presenti nelle nostre città che ostacolano la possibilità di vivere la propria vita senza dipendere da altre persone. Per riuscire a rendere queste persone più indipendenti sarebbe opportuno avviare un percorso di cooperazione tra le diverse istituzioni sociali, le quali dovrebbero progettare e soprattutto realizzare strutture, iniziative e progetti per guidare il soggetto a ottenere un ben-essere generale. Anche Canevaro afferma che il ben-essere di un individuo è legato al capitale sociale, ossia l’insieme delle capacità che l’individuo possiede di organizzarsi e di adattarsi grazie a elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. La vita delle persone disabili è stata “facilitata” grazie alla legge-quadro 104/92 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Essa, infatti, offre l’opportunità, ai diversamente abili, di godere degli stessi diritti e degli stessi servizi delle persone normodotate. Tale legge ha l’obiettivo di superare tutte le barriere che ostacolano le persone con disabilità, cercando, il più possibile, di “rendere normale” la loro vita.
    Negli ultimi decenni i ricercatori si sono interessati alle diverse forme del ben-essere, infatti numerosi sono gli studi rivolti al vivere bene e meglio per se stessi. Quindi, raggiungere il ben-essere e la felicità non è più solo un’aspirazione del singolo, ma anche degli studiosi. Ricerche emergenti per quanto riguarda il ben-essere dei disabili sono state fatte sulle famiglie, che al loro interno hanno un figlio con handicap. Tali ricerche hanno paragonato la figura materna a una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si rinnova a ogni fase dello sviluppo del bambino. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Secondo Dykeus le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins, su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato. In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità e di cura da parte dell’intera famiglia nei confronti del figlio e/o fratello disabile. L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. Molto spesso i genitori di bambini con disabilità trascorrono periodi di stress prolungati, ciò influisce molto sullo sviluppo dei figli. In conclusione, la presenza di un disabile all’interno di una famiglia comporta una situazione di sofferenza generale.
    Al termine della nostra riflessione, siamo arrivate alla conclusione che la disabilità non è della persona che malauguratamente la possiede, ma è di chi la guarda. Questi ultimi, rappresentati dalla società, non favoriscono la piena integrazione di queste persone, considerate “svantaggiate”.
    Maria Santoro
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    Messaggio  Maria Santoro Sab Feb 25, 2012 1:28 pm

    Nonostante adesso si usi l'espressione "diversamente abile" nel senso comune l'idea che si ha di queste persone purtroppo non è cambiata; consideriamo infatti tali persone "inabili a fare qualcosa".
    In effetti non si può dare una definizione univoca di disabilità, infatti tale termine è soggetto a mutevoli accezioni a seconda della disciplina che lo studia e lo interpreta, ma anche a seconda degli scopi che si vogliono perseguire. Definire la disabilità è però un compito fondamentale poichè le politche sociali, i governi e le organizzazioni internazionali devono considerare la natura multisfaccettata di questa dimensione.
    Molti studiosi, tra cui Pfeiffer, hanno riconosciuto che nessun singolo modello è in grado di spiegare totalmente la disabilità; ciascun modello di disabilità infatti può portare un'utile prospettiva su di essa in un dato contesto.
    Un modello significativo per definire la disabilità, comprendere le sue cause e le possibili conseguenze economiche ad esse collegate è quello della capability sviluppato da A.M. Sen. Tale modello è stato utilizzato in ambito internazionale per analizzare il collegamento tra disabilità, discriminazione di genere e povertà. La sua utilità nel definire la disabilità però non è stata ancora presa sufficentemente in considerazione.
    Come abbiamo capito il tema della disabilità si colloca in una prospettiva che intreccia elementi sociali, culturali e politico-istituzionali; diversi modelli sono stati creati per definire la disabilità; quelli più diffusi sono il modello biomedico, quello sociale e quello biopsicosociale.
    Il modello biomedico considera la disabilità come un problema dell'individuo che è direttamente causato dalla malattia, e richiede cure mediche in forma di trattamento o riabilitazione. Quindi tale modello è fortemente normativo perchè le persone sono considerate disabili sulla base delle loro incapacità.
    Sul modello biomedico è stato costruito l'ICDH che però è stato criticato per vari motivi; uno tra questi è che il concetto di menomazione e normalità sono fenomeni sociali, e sono soggetti a trasformazioni nel tempo; il secondo motivo riguarda il corpo umano che è flessibile ai fattori fisici e sociali appartenenti agli ambienti che ci circondano; terzo motivo riguarda il fatto che menomazione, disabilità ed handicap sono immutabili. In sintesi il modello ICDH non riconosce il ruolo giocato dall'ambiente nella disabilità.
    Il modello sociale, invece, tiene in considerazione una serie di condizioni, attività e relazioni molte delle quali sono create dall'ambiente sociale, quindi la disabilità viene vista come un costrutto sociale.
    Il modello biopsicosociale tiene conto dei fattori psicosociali e ritiene che la diagnosi medica debba considerare una molteplicità di aspetti che vanno da quelli biologici a quelli sociali. Secondo tale modello viene messo in primo piano il concetto di empowerment, potere, ovverosia il ruolo della persona nella gestione della propria salute capace di controllo e autogestione. Da questo modello nasce l'ICF. L'ICF descrive il funzionamento umano e decrementi nel funzionamento come il prodotto di un'interazione dinamica tra varie condizioni di salute e fattori contestuali. All'interno dell'ICF il termine condizione di salute è usato per rappresentare le malattie, i disordini, il danno e le anomalie congenite. Questo è l'unico modello concettuale di disabilità che si avvicina a fornire un concreto sistema di classificazione degli individui.
    Un ulteriore modello di analisi è il "Capability Approach" che si concentra sul concetto di vulnerabilità, adottando una prospettiva inclusiva e di empowerment. Tale modello riesamina l'interazione tra l'individuo e i modelli sociali di disabilità poichè riconosce la diversità umana, non segrega i gruppi vulnerabili e guarda alle condizioni di vulnerabilità come ad un fenomeno multidimensionale e dinamico; si può affermare dunque che il capability si interessi del benessere della persona. Tale approccio promuove una prospettiva egualitaria in cui i diritti non dipendono dall'origine causale della disabilità; quindi in termini di capability, se una disabilità è biologicamente o socialmente causata, come tale non importa; ciò che importa è lo scopo dell'intera serie di capacità da cui una persona può scegliere e il ruolo che la menomazione e la disabilità giocano in questa serie di libertà. E' giusto a tal punto sottolineare che la convenzione sui diritti delle persone con disabilità nell'articolo preliminare sottolinea come "liberarsi dalla disabilità significa avere la possibilità di scegliere, non vivere la vita in conformità a qualche nozione predefinita di normalità."

    Ilaria Silletti, Maria Santoro
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty capitolo II PRESUPPOSTI TEORICI DELLA CLASSIFICAZIONE INTERNAZIONALE DEL FUNZIONAMENTO

    Messaggio  cinzia Sab Feb 25, 2012 1:33 pm

    La prima classificazione elaborata dall’OMS, “La Classificazione Internazionale delle malattie” (ICD, 1970) risponde all’esigenza di cogliere la causa delle patologie, fornendo per ogni sindrome e disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche ed indicazioni diagnostiche. L’ICD si delinea quindi come una classificazione causale, focalizzando l’attenzione sull’aspetto eziologico della patologia. Le diagnosi delle malattie vengono tradotte in codici numerici che rendono possibile la memorizzazione, la ricerca e l’analisi dei dati. L’ICD rivela ben presto vari limiti di applicazione e ciò induce l’OMS ad elaborare un nuovo manuale di classificazione, in grado di focalizzare l’attenzione non solo sulla causa delle patologie, ma anche sulle loro conseguenze: “la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH, 1980). La presenza di limiti concettuali insiti nella classificazione ICIDH ha portato l’OMS ad elaborare un’ulteriore strumento, “La Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità" (ICIDH-2, 1999), che rappresenta l’embrione del modello concettuale che sarà sviluppato nell’ultima classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “La Classificazione Internazionale del funzionamento,disabilità e salute (ICF, 2001). La Classificazione Internazionale del Funzionamento è il più recente modello del funzionamento e della disabilità. Il so obiettivo è quello di fornire una struttura di riferimento per la descrizione del funzionamento umano e della disabilità. L ‘ICF è concettualmente unico,dal momento che esso offre una visione della salute che sottolinea l’importanza di varie dimensioni e molteplici determinanti che influenzano la salute e il funzionamento di un individuo. Nell’ICF,la salute è considerata essere molto più che determinata dall’influenza di fattori biologici,psicologici,sociali e contestuali. La Classificazione Internazionale del Funzionamento è il più recente modello del funzionamento e della disabilità. Il suo obiettivo è quello di fornire una struttura di riferimento per la descrizione del funzionamento umano e della disabilità. Molti articoli discutono il significato dell’ ICF e il suo uso potenziale,e tale letteratura fornisce una varietà di prospettive a supporto della classificazione. Stucki et al. (2002) hanno fornito una discussione generale del potenziale dell’ ICF come strumento funzionale e hanno concluso che esso è necessario ed essenziale. Esso fornisce una struttura comune per descrivere l’informazione sullo stato funzionale nei percorsi di salute.
    I suoi scopi principali sono:
    - fornire una base scientifica per la comprensione e lo studio della salute, delle condizioni, conseguenze e cause determinanti ad essa correlate;

    - stabilire un linguaggio standard ed univoco per la descrizione della salute delle popolazioni allo scopo di migliorare la comunicazione fra i diversi utlizzatori, tra cui operatori sanitari, ricercatori, esponenti politici e la popolazione, incluse le persone con disabilità;

    - rendere possibile il confronto fra i dati relativi allo stato di salute delle popolazioni raccolti in Paesi diversi in momenti differenti;

    - fornire uno schema di codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari.
    Altri autori,invece,hanno espresso nei confronti dell’ICF ,riserve e preoccupazioni.
    Le incertezze possono essere cosi riassnte:
    -la difficoltà nel codificare la dimensione del tempo,e questo include la perdita di tempo,il cambiamento di tempo e la gestione del tempo.
    - difficoltà nell’uso dei qualificatori considerandola la parte più difficile da comprendere per le persone formate all’uso dell’ICF.
    - perplessità in riferimento ai codici disponibili all’utilizzatore e la mancanza invece di altri codici.
    Il modello ICF è diviso in due parti: la prima parte considera il funzionamento e la disabilità e comprende : - funzioni corporee, le strutture,l’attività e la partecipazione. La seconda parte del modello comprende i fattori contestuali che includono i fattori ambientali e personali. La dimensione dei fattori contestuali ambientali ricopre un ruolo significativo nella classificazione dell’ICF. Spesso l’ambiente influenza la persona con menomazione fisica più dell’attuale condizione fisica. Infatti un contesto ben definito è in grado di direzionare il pensiero,i sentimenti e le emozioni delle persone in un verso,piuttosto che in un altro. CONTESTO: insieme delle condizioni ,delle opportunità e dei vincoli spaziali,temporali,relazionali e culturali che assieme ad un discorso ,ad un gesto genera il significato. La letteratura accademica afferma che i fattori ambientali hanno un impatto sulle conseguenze di disabilità. Fattori come il contesto territoriale,le condizioni socio-economiche,il supporto sociale sono considerati fattori importanti nel determinare la presenza di disabilità. Abbiamo detto che l’ICF è diviso in due parti;quello che ora ci interessa prendere in considerazione è la definizione delle componenti della prima parte : ATTIVITà E PARTECIPAZIONE. Queste due componenti vengono considerate come un’unica componente e,al tempo stesso, sono concettualmente diverse. ATTIVITA’ PARTECIPAZIONE
    - Funzionamento individuale della persona - funzionamento sociale della persona
    - Correlazione al grado di menomazione - correlazione alla qualità di vita percepita
    - Minore dipendenza dal fattore ambientale - maggiore dipendenza dal fattore ambientale
    Oliva Margherita
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 18 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Oliva Margherita Gio Mar 01, 2012 7:42 pm

    Margherita Oliva

    Educarsi al ben-essere.

    Alla base della politica e della pratica inclusiva c'è il bene di tutti i bambini. Questa prospettiva si basa su una visione positiva della differenza in cui la diversità dei bambini viene consideata come risorsa. Viene data priorità al perseguimento del cambiamento con forte enfasi sull'importanza dell'imparare a vivere insieme agli altri e riconoscere la nostra comune umanità. L'educazione inclusiva tenta di fornire una cultura ed una pratica in cui tutte le barriere alla partecipazione possono essere identificate e rimosse. La scuola come luogo in cui la persona quotidianamente sperimenta se stesso, deve insegnare a vivere; questa sembra essere l'emergenza attuale. Bisogna costruire la consapevolezza della persona partendo dall'individuazione di ciò che sa fare e su questo costruire. Insegnare il ben- essere vero e essenziale; insegnare ad imparare ad imparare a stare bene prima di tutto con se stessi e quindi con gli altri.
    In questa prospettiva le raccomandazioni dell'UNESCO pone al centro di uno sviluppo sostenibile il rinforzo delle capabilities positive delle persone: imparare ad essere, imparare a vivere insieme oltre al conoscere e al fare.
    In questa ottica la formazione è intesa come una risorsa permanente, orientata verso competenze trasferibili.
    Nel 1997 l'OMS pubblicò il documento "Life skills education in schools", contenente l'elenco completo delle abilità personali e relazionali utili per gestire i rapporti tra il singolo e gli altri soggetti.
    L'apprendimento di queste abilità consente di trasformare la conoscenza in abilità.
    L'acquisizione di abilità è basata sull'apprendimento attraverso la partecipazione attiva. Si parla di un apprendimento attivo che coinvolge sia l'insegnante che l'alunno in gruppo, per promuovere la competenza psicosociale.

    Approfondimento sulle capabilities.

    L'approccio delle capabilities valuta il ben-essere della persona in termini di competenze individuali possedute, al fine di realizzare un insieme di "funzionamenti personalmente scelti".
    Si tratta di intendere il vivere come una combinazione di "fare(agire) ed essere", la cui qualità di vita è valutata in termini di capacità di realizzazione di tali funzionamenti.
    Busillacchi G.(2006) Nuovo welfare e capacità dei soggetti.
    Un tale approccio sposta l'attenzione sulle potenzialità interne ed esterne degli individui.
    Interessante è sottolineare la duplicità del termine capability, così come inteso sia da Sen che dalla Nussbaum: capability come potere interno del soggetto, un potere cioè controfattuale che è posseduto anche se non esercitato(la capacità di fare qualcosa è in questo senso un aspetto della costruzione del soggetto: un suo stato fisico o un suo stato mentale) e la capebility come potere esterno dell'individuo, inteso come circostanze favorevoli e/o opportunità. IL concetto comprende tanto la capacità in senso stretto, quanto l'opportunità e le circostanze esterne che non ostacolano l'azione(l'aspetto di libertà positiva come possesso delle capacità e l'aspetto di libertà negativa come assenza di impedimenti).
    Ceruti M. e Treu T., a cura di(2010). Organizzare l'altruismo. Globalizzazione e
    welfare. Laterza.
    In questo modo si sottolinea l'importanza del possesso delle capabilities interne, ma anche delle condizioni esterne favorevoli al possesso ed all'uso di esse: "Per garantire una capacità a una certa persona non è sufficiente produrre stati interni di disponibilità ad agire. altrettanto necessario è predisporre l'ambiente materiale e istituzionale in modo che le persone siano effettivamente in grado di funzionare". Nussbaum
    Geo rivista.

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