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Forum didattico del corso di Psicopedagogia dei linguaggi a.a.2011-12 a cura di F. Briganti Stanza di collaborazione del gruppo classe


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty ES. n° 2 - BEN-ESSERE DISABILI

    Messaggio  rosa.rapacciuolo Ven Feb 03, 2012 10:15 pm

    In un mondo globalizzato ,dove la condizione umana sembra stemperarsi in una dimensione generale,astratta, dai contorni indeterminati a volte virtuali,è indispensabile possedere una visione chiara e prospettica del modo con il quale vengono affrontate e impostate le situazioni riguardanti le diverse abilità. Il termine disabilità ha subito notevoli cambiamenti nel corso del tempo. In un passato non molto remoto il termine disabilità era contrapposto a quello di normalità ,quindi il disabile era colui che dietro certificazione medica presentava una malattia deviante dalla norma. Parliamo in questo caso del modello bio-medico,in cui la figura centrale era rappresentata dal medico,il quale diagnosticava la disabilità di un paziente su basi biologiche, su attestazioni scientifiche. Il disabile secondo il modello bio-medico era colui che rientrava nelle categorie di :sordi, ciechi,paraplegici,malati mentali. Contrapposto al modello bio-medico,abbiamo il modello sociale sorto negli anni '50 in America.Con questo modello si parla di disabilità intesa come chiusura della società nei confronti delle persone disabili, in parole semplici, sono le barriere architettoniche presenti nella società che causano disabilità. In questo modello si prospetta anche una visione negativa nei confronti degli istituti che accoglievano i disabili in quanto procurano passività al soggetto stesso. Grazie alle lotte sociali che hanno cavalcato le scene degli anni '60-'70, si è arrivati ad una rivalutazione dell'individuo, della sua conquista dell'identità personale attraverso tutti i settori da quello politico a quello lavorativo. E' su questo scenario che nasce il modello bio-psico-sociale, il quale affronta il tema della disabilità come un'interazione tra malattia e ambiente sociale in cui il soggetto è collocato. Inoltre il modello bio-psico-sociale si propone sotto l'aspetto dinamico in quanto sostiene l' importanza dell'interazioni individuo/ambiente, contrapponendosi alla rigidità e staticità di un approccio causa/effetto. L'ICF dall'inglese "INTERNATIONAL CLASSIFICATION OF FUNCTIONING,DISABILITY AND HEALT" viene ad identificarsi con il modello bio-psico-sociale.
    L'ICF identifica lo stato di salute dipendente da tre elementi:l'integrità delle funzioni e strutture corporee, la capacità di svolgere delle attività, la possibilità di partecipare alla vita sociale. L'ICF viene utilizzato come riferimento per una politica inclusiva e per l'elaborazione di progetti finalizzati al miglioramento della qualità della vita, nella prospettiva di offrire pari opportunità ai soggetti con disabilità. L'approccio alla disabilità fornito dall'ICF presenta dei tratti comuni con il CAPABILITY APPROACH di Sen. Questo approccio restituisce dignità alla persona attraverso opportunità pratiche, intese come opportunità di cui godere. Inoltre offre agli individui la capacità di raggiungere stati di "essere" e di "fare", che rendono la vita degna di essere vissuta. Sen si occupa del ben-essere della persona e dei sui benefici. In questo modo viene portata avanti la cultura dell' inclusività, tenendo conto dell'approccio globale dello stato di salute della persona nel coinvolgimento di tutte le figure istituzionali. Alla scuola, la quale attraverso un progetto di vita per la crescita personale e sociale dell'alunno con disabilità, spetta il compito di aprire l'orizzonte per "un futuro possibile", i quanto la disabilità deve essere usata solo come terminologia e non condizione di essere.

    Gruppo formato da CINZIA MARINIELLO & RAPACCIUOLO ROSA

    considerazioni ragionate
    la docente
    Ginevra Piccolo
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Ginevra Piccolo Sab Feb 04, 2012 11:06 am

    Professoressa non so cosa sia successo, ma controllando oggi la relazione inserita,non riesco a trovare il messaggio così ho pensato di reinserirlo.

    Gruppo Lucia Guarino; Ginevra Piccolo
    Cap. 3 Uno sguardo oltre … la disabilità

    Esiste senza alcun dubbio un fortissimo mutamento sociale e culturale, al quale si è assistito in particolare negli ultimi anni, nel modo di percepire la disabilità. Un mutamento profondo che si è verificato sia all’interno che all’esterno di questo mondo così articolato e complesso.
    All’interno, cambiando il modo con cui i disabili stessi percepiscono e vivono la propria condizione, le proprie relazioni sociali, le possibilità di realizzarsi o di costruirsi un futuro.
    All’esterno, sradicando pregiudizi e paure, e creando una società più aperta, più disponibile, in grado di riconoscere diritti e bisogni una volta impensabili per i portatori di handicap.
    Ma cosa si intende per disabilità?
    La disabilità è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d'interazione con l'ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso è in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale.
    La disabilità è ,comunque, un concetto in cambiamento che si colloca in una prospettiva che determina l’intersezione di elementi sociali, culturali e politico-istituzionali, naturalmente mediante l’esperienza di chi vive e interagisce con l’handicap.
    Un grande sforzo è stato fatto nel cercare di definire la disabilità, mettendo in primo piano l’importanza che questa tematica ha assunto, in particolare per le scienze sociali volte alla promozione di politiche, finalizzate a determinare l’empowerment dei soggetti disabili, che vede al centro la persona e la sua diretta partecipazione.
    In tale prospettiva, quindi, per poter guardare oltre la disabilità, non possiamo prescindere dall’indagare l'evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel tempo, attraverso i diversi modelli concettuali che sono stati formulati nel corso della riflessione teorica sulla salute, sulla malattia e le sue conseguenze sulla vita della persona, che ha caratterizzato il ventesimo secolo. Tra i primi modelli ricordiamo quello medico, o biomedico, per il quale la disabilità è un problema strettamente legato all'individuo, causata da una malattia o da una lesione. Esso in particolare, pone a confronto la qualità di vita condotta dai soggetti disabili con quella dei normodotati, considerando il disabile un soggetto passivo, non utile alla società, e di cui, quindi, la società non può interessarsi. La malattia è considerata un’interruzione dello stato normale per cui lo sviluppo dei soggetti disabili è reso possibile solo attraverso l'impegno e la preparazione dei professionisti sanitari mediante il processo di riabilitazione, e mediante il supporto di strutture sanitarie, considerate unica opportunità di crescita.
    Un modello che si contrappone, invece,al modello medico è il modello sociale che interpreta la salute come uno stato di benessere complessivo che comprende non solo l’aspetto fisico, mentale e sociale, ma anche l’interazione della persona con l’ambiente. Infatti, i teorici di questo approccio ritenevano che le persone con menomazioni vengono relegate a ruoli secondari all’interno della società sulla base di decisioni mediche e sanitarie che influiscono su tutti gli aspetti della loro vita. Quindi la disabilità non è un attributo dell’individuo, ma è un qualcosa che viene imposto dal modo in cui noi siamo isolati ed esclusi dalla piena partecipazione alla società. È quindi la società che rende disabili le persone che hanno delle menomazioni.
    Un importante contributo, alla fine degli anni 50 , è stato fornito anche dal lavoro del sociologo Nagi, il quale ha definito la disabilità come l’espressione delle limitazioni funzionali nel contesto sociale ed in quello lavorativo, cioè la disabilità è un prodotto dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente, che pone delle richieste all’individuo. In maniera esplicita, quindi, il modello di Nagi riconobbe il ruolo dell’ambiente sociale nel processo del disablement. Una visione in linea con il modello biopsicosociale o ICF, affermatosi alla fine degli anni settanta, con il quale si ha la prima svolta nella riflessione sulla disabilità. Con questo approccio si cambia prospettiva, guardando la disabilità in termini di interazione fra le componenti biologiche, individuali e sociali. Esso pone alla base il concetto di salute e il suo mantenimento; considerando, appunto, la disabilità come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui esso vive. La persona disabile è ora al centro, con i suoi bisogni; ma soprattutto è una persona attiva, che gestisce le condizioni della propria salute mediante il suo rapporto con la società, determinando così il suo empowerment.
    Un ulteriore e importante passo in avanti è stato fatto, sicuramente, con l’applicazione del modello Capability alla disabilità. Un modello che guarda al benessere della persona non in termini di risorse materiali, di produttività, quindi di utilità per la società, ma in termini di qualità della vita, quindi di possibilità e di libertà che ognuno ha per poter raggiungere il benessere individuale. A tal fine, esso focalizza l’attenzione sulla pluralità di fattori personali e familiari, e sulle molteplicità di contesti sociali, ambientali, economici, istituzionali, culturali, che agiscono nella determinazione del processo di benessere individuale, sostituendo l’idea di benessere materiale con l’idea di “star bene”, una condizione che include aspetti della vita umana a cui non corrisponde direttamente un valore monetario, ma che hanno un valore di per sé come l’istruzione e la conoscenza, il livello di nutrizione o le condizioni di salute, la sicurezza personale e la qualità dell’ambiente in cui si vive, le libertà politiche, civili e culturali di cui si dispone.
    Possiamo dire, che questo approccio consente di superare il dilemma delle differenze, in quanto si focalizza sulle specificità della situazione e dei bisogni del singolo, senza imprigionarlo con una etichetta immutabile; esso restituisce dignità alla persona attraverso la centralità dell’essere umano.
    In tale prospettiva, il modello Capability è quello che maggiormente ha contribuito a determinare nuove impostazioni per le politiche di sviluppo nei confronti della disabilità, rappresentando un punto di partenza cruciale per un
    mutamento delle modalità di implementazione delle politiche che devono allargare lo spazio informativo su cui basare le decisioni, includendo aspetti non materiali, come la dignità, il rispetto verso se stessi e gli altri, l’amore e le attenzioni (intese come care); concentrandosi sul concetto di vulnerabilità, di opportunità e di possibilità, per adottare una prospettiva inclusiva e di empowerment.
    Dall’analisi dei diversi approcci alla disabilità, affrontata in questo capitolo possiamo dire che vi sono sostanziali differenze tra essi, ma anche evidenti somiglianze, soprattutto tra gli ultimi modelli trattati in quanto essi enfatizzano l’importanza delle relazioni tra l’individuo e la collettività. Avere una vita “normale” significa avere la possibilità di pensare al proprio benessere e avere la libertà di poter fare le proprie scelte per vivere la vita che si desidera, compito della società è, quindi, quello di espandere le opportunità e le libertà di cui le persone possono godere, e questo vale per tutti.


    ottime considerazioni
    personalizzate e ragionate
    la docente

    Ginevra Piccolo
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Ginevra Piccolo Sab Feb 04, 2012 11:08 am

    Ginevra Piccolo ha scritto:Professoressa, mi scusi, non so cosa sia successo, ma controllando oggi la relazione inserita,non riesco a trovare il messaggio così ho pensato di reinserirlo, forse ho sbagliato a cliccare, ero sicura di averlo inviato perchè l'ho fatto lo stesso giorno dell'esercizio sull'autismo..

    Gruppo Lucia Guarino; Ginevra Piccolo
    Cap. 3 Uno sguardo oltre … la disabilità

    Esiste senza alcun dubbio un fortissimo mutamento sociale e culturale, al quale si è assistito in particolare negli ultimi anni, nel modo di percepire la disabilità. Un mutamento profondo che si è verificato sia all’interno che all’esterno di questo mondo così articolato e complesso.
    All’interno, cambiando il modo con cui i disabili stessi percepiscono e vivono la propria condizione, le proprie relazioni sociali, le possibilità di realizzarsi o di costruirsi un futuro.
    All’esterno, sradicando pregiudizi e paure, e creando una società più aperta, più disponibile, in grado di riconoscere diritti e bisogni una volta impensabili per i portatori di handicap.
    Ma cosa si intende per disabilità?
    La disabilità è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d'interazione con l'ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso è in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale.
    La disabilità è ,comunque, un concetto in cambiamento che si colloca in una prospettiva che determina l’intersezione di elementi sociali, culturali e politico-istituzionali, naturalmente mediante l’esperienza di chi vive e interagisce con l’handicap.
    Un grande sforzo è stato fatto nel cercare di definire la disabilità, mettendo in primo piano l’importanza che questa tematica ha assunto, in particolare per le scienze sociali volte alla promozione di politiche, finalizzate a determinare l’empowerment dei soggetti disabili, che vede al centro la persona e la sua diretta partecipazione.
    In tale prospettiva, quindi, per poter guardare oltre la disabilità, non possiamo prescindere dall’indagare l'evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel tempo, attraverso i diversi modelli concettuali che sono stati formulati nel corso della riflessione teorica sulla salute, sulla malattia e le sue conseguenze sulla vita della persona, che ha caratterizzato il ventesimo secolo. Tra i primi modelli ricordiamo quello medico, o biomedico, per il quale la disabilità è un problema strettamente legato all'individuo, causata da una malattia o da una lesione. Esso in particolare, pone a confronto la qualità di vita condotta dai soggetti disabili con quella dei normodotati, considerando il disabile un soggetto passivo, non utile alla società, e di cui, quindi, la società non può interessarsi. La malattia è considerata un’interruzione dello stato normale per cui lo sviluppo dei soggetti disabili è reso possibile solo attraverso l'impegno e la preparazione dei professionisti sanitari mediante il processo di riabilitazione, e mediante il supporto di strutture sanitarie, considerate unica opportunità di crescita.
    Un modello che si contrappone, invece,al modello medico è il modello sociale che interpreta la salute come uno stato di benessere complessivo che comprende non solo l’aspetto fisico, mentale e sociale, ma anche l’interazione della persona con l’ambiente. Infatti, i teorici di questo approccio ritenevano che le persone con menomazioni vengono relegate a ruoli secondari all’interno della società sulla base di decisioni mediche e sanitarie che influiscono su tutti gli aspetti della loro vita. Quindi la disabilità non è un attributo dell’individuo, ma è un qualcosa che viene imposto dal modo in cui noi siamo isolati ed esclusi dalla piena partecipazione alla società. È quindi la società che rende disabili le persone che hanno delle menomazioni.
    Un importante contributo, alla fine degli anni 50 , è stato fornito anche dal lavoro del sociologo Nagi, il quale ha definito la disabilità come l’espressione delle limitazioni funzionali nel contesto sociale ed in quello lavorativo, cioè la disabilità è un prodotto dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente, che pone delle richieste all’individuo. In maniera esplicita, quindi, il modello di Nagi riconobbe il ruolo dell’ambiente sociale nel processo del disablement. Una visione in linea con il modello biopsicosociale o ICF, affermatosi alla fine degli anni settanta, con il quale si ha la prima svolta nella riflessione sulla disabilità. Con questo approccio si cambia prospettiva, guardando la disabilità in termini di interazione fra le componenti biologiche, individuali e sociali. Esso pone alla base il concetto di salute e il suo mantenimento; considerando, appunto, la disabilità come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui esso vive. La persona disabile è ora al centro, con i suoi bisogni; ma soprattutto è una persona attiva, che gestisce le condizioni della propria salute mediante il suo rapporto con la società, determinando così il suo empowerment.
    Un ulteriore e importante passo in avanti è stato fatto, sicuramente, con l’applicazione del modello Capability alla disabilità. Un modello che guarda al benessere della persona non in termini di risorse materiali, di produttività, quindi di utilità per la società, ma in termini di qualità della vita, quindi di possibilità e di libertà che ognuno ha per poter raggiungere il benessere individuale. A tal fine, esso focalizza l’attenzione sulla pluralità di fattori personali e familiari, e sulle molteplicità di contesti sociali, ambientali, economici, istituzionali, culturali, che agiscono nella determinazione del processo di benessere individuale, sostituendo l’idea di benessere materiale con l’idea di “star bene”, una condizione che include aspetti della vita umana a cui non corrisponde direttamente un valore monetario, ma che hanno un valore di per sé come l’istruzione e la conoscenza, il livello di nutrizione o le condizioni di salute, la sicurezza personale e la qualità dell’ambiente in cui si vive, le libertà politiche, civili e culturali di cui si dispone.
    Possiamo dire, che questo approccio consente di superare il dilemma delle differenze, in quanto si focalizza sulle specificità della situazione e dei bisogni del singolo, senza imprigionarlo con una etichetta immutabile; esso restituisce dignità alla persona attraverso la centralità dell’essere umano.
    In tale prospettiva, il modello Capability è quello che maggiormente ha contribuito a determinare nuove impostazioni per le politiche di sviluppo nei confronti della disabilità, rappresentando un punto di partenza cruciale per un
    mutamento delle modalità di implementazione delle politiche che devono allargare lo spazio informativo su cui basare le decisioni, includendo aspetti non materiali, come la dignità, il rispetto verso se stessi e gli altri, l’amore e le attenzioni (intese come care); concentrandosi sul concetto di vulnerabilità, di opportunità e di possibilità, per adottare una prospettiva inclusiva e di empowerment.
    Dall’analisi dei diversi approcci alla disabilità, affrontata in questo capitolo possiamo dire che vi sono sostanziali differenze tra essi, ma anche evidenti somiglianze, soprattutto tra gli ultimi modelli trattati in quanto essi enfatizzano l’importanza delle relazioni tra l’individuo e la collettività. Avere una vita “normale” significa avere la possibilità di pensare al proprio benessere e avere la libertà di poter fare le proprie scelte per vivere la vita che si desidera, compito della società è, quindi, quello di espandere le opportunità e le libertà di cui le persone possono godere, e questo vale per tutti.


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  sarapalermo Sab Feb 04, 2012 11:45 am

    sarapalermo ha scritto:Relazione Cap. 1 Ben-essere nella disabilità del gruppo formato da Conte Mariangela, Forte Rossana, Natale Marianna e Palermo Sara.

    Il tema della felicità e del ben-essere degli individui é stato per secoli al centro di numerose riflessioni filosofiche, religiose, educative, ecc. E’ a partire dagli studi delle scienze sociali che si è iniziato a studiare i concetti in maniera più sistematica.
    Spesso i termini di felicità e di ben-essere sono utilizzati come sinonimi ma in realtà il termine benessere comprende un campo semantico molto più ampio. Lo stesso Aristotele parla di un processo di interazione e mutua influenza tra ben-essere personale e ben-essere collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale.
    Bisogna considerare che il ben-essere non può essere assimilato ad una generale condizione di ben-essere fisico o economico, ma rappresenta uno stato che comprende in sé più dimensioni.
    La psicologia positiva sostiene l’importanza di considerare il benessere, non come uno stato individuale ma come un “progetto dinamico, da condividere con gli altri”. Canevaro, al riguardo, ritiene che il ben-essere dell’individuo non si esaurisce all’interno di una condizione individuale “autarchica” ma si ricollega al concetto di “capitale sociale”, cioè all’insieme delle capacità che l’individuo ha di organizzarsi ed adattarsi grazie alla relazione con i contesti che lo circondano.
    Ognuno di noi, nascendo, ha la capacità di ben-essere, sia essa persona normodotata o disabile. Per giungere ad uno stato di benessere a più dimensioni, ciascun individuo ha bisogno di soddisfare i propri bisogni e di realizzarsi all’interno della società. Questi aspetti non sono sempre possibili per una persona disabile. In realtà questa difficoltà è legata molto spesso, non tanto ai deficit più o meno gravi del soggetto, quanto piuttosto all’ambiente che lo circonda. Non sono, infatti, gli individui ad essere svantaggiati ma, spesso, è proprio l’ambiente sociale e culturale che pone dei limiti, delle barriere.
    La prospettiva di intervento a favore delle persone disabili è mutata profondamente nel corso del tempo: si è passati, infatti, da un approccio di tipo ripartivo-assistenziale ad un modello di intervento basato sull’empowerment, cioè sulla promozione dell’autodeterminazione dei soggetti. Questo significa che la persona disabile non viene considerata come soggetto che usufruisce passivamente di determinate prestazioni messe in atto a suo favore; la persona, al contrario, viene considerata come soggetto attivo, responsabile in prima persona del suo ben-essere e coinvolta al fine di attivare e rafforzare le sue risorse in vista del perseguimento di obiettivi autodeterminati e della partecipazione alla vita comunitaria.
    Per favorire il ben-essere delle persone disabili occorre, dunque, partire dalle risorse, dai punti di forza, dalle potenzialità dell’individuo che, seppur residue, vanno in ogni momento incentivate e fatte emergere. Intervenire a favore di soggetti disabili non significa prendere decisioni al loro posto, risolvere i problemi o sostituirsi a loro nelle scelte. L’intervento dell’operatore, invece, ha la funzione di attivare e/o migliorare funzioni e competenze del soggetto in modo da consentirgli di utilizzare al meglio le proprie potenzialità all’interno di un contesto sociale più ampio possibile.
    L’intervento di aiuto, inoltre, dovrebbe facilitare l’accesso ai servizi, alle reti di sostegno, rimuovendo quelle “barriere” che sono spesso insite all’interno della società e che di fatto impediscono il ben-essere dell’individuo a più dimensioni.



    Bibliografia:
    1) Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    2) Medeghini R., Disabilità e corso di vita – Traiettorie, appartenenze e processi di inclusione delle differenze, Franco Angeli, 2006

    Lavoro sufficiente,
    Avete risposto alla richiesta dell'esercizio,
    manca solo una visione critica del gruppo.
    la docente


    Il gruppo integra una riflessione critica

    Il ben-essere delle persone disabili deve essere raggiunto trovando un punto di equilibrio, le persona disabili hanno bisogno bisogno di agire come soggetti attivi, hanno bisogno di essere coinvolti e di dare il loro contributo.
    La società odierna non considera il diversabile come una persona con propri doveri, diritti e sentimenti personali, ma soltanto come uno che deve essere aiutato a inserirsi nel panorama comune nel modo più passivo possibile. Un diversabile, spesso, è considerato come un “qualcosa” da trattare con atteggiamenti particolari: lo si circonda di confuso vittimismo, lo si deve aiutare, gli si deve per forza, dimostrare amicizia. Proprio qui, a questo punto, nasce la compassione, un’arma a doppio taglio che realizza sì le aspettative immediate (il contatto con gli altri), ma crea anche falsi rapporti e, di conseguenza, frustrazioni” . Sarebbe opportuno, invece, percepire il diversabile non come un “oggetto”, un“ essere muto”, ma conferirgli la libertà di partecipazione attiva alla società favorendone dunque la visione stessa di sé come di una persona, di un “soggetto” attivo.
    Ciò che bisogna accettare è, in un certo senso, è lo statuto della diversità, come condizione normale dell’uomo.
    Rossanaforte
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Rossanaforte Sab Feb 04, 2012 11:50 am

    Rossanaforte ha scritto:Relazione Cap. 1 Ben-essere nella disabilità del gruppo formato da Conte Mariangela, Forte Rossana, Natale Marianna e Palermo Sara.

    Il tema della felicità e del ben-essere degli individui é stato per secoli al centro di numerose riflessioni filosofiche, religiose, educative, ecc. E’ a partire dagli studi delle scienze sociali che si è iniziato a studiare i concetti in maniera più sistematica.
    Spesso i termini di felicità e di ben-essere sono utilizzati come sinonimi ma in realtà il termine benessere comprende un campo semantico molto più ampio. Lo stesso Aristotele parla di un processo di interazione e mutua influenza tra ben-essere personale e ben-essere collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale.
    Bisogna considerare che il ben-essere non può essere assimilato ad una generale condizione di ben-essere fisico o economico, ma rappresenta uno stato che comprende in sé più dimensioni.
    La psicologia positiva sostiene l’importanza di considerare il benessere, non come uno stato individuale ma come un “progetto dinamico, da condividere con gli altri”. Canevaro, al riguardo, ritiene che il ben-essere dell’individuo non si esaurisce all’interno di una condizione individuale “autarchica” ma si ricollega al concetto di “capitale sociale”, cioè all’insieme delle capacità che l’individuo ha di organizzarsi ed adattarsi grazie alla relazione con i contesti che lo circondano.
    Ognuno di noi, nascendo, ha la capacità di ben-essere, sia essa persona normodotata o disabile. Per giungere ad uno stato di benessere a più dimensioni, ciascun individuo ha bisogno di soddisfare i propri bisogni e di realizzarsi all’interno della società. Questi aspetti non sono sempre possibili per una persona disabile. In realtà questa difficoltà è legata molto spesso, non tanto ai deficit più o meno gravi del soggetto, quanto piuttosto all’ambiente che lo circonda. Non sono, infatti, gli individui ad essere svantaggiati ma, spesso, è proprio l’ambiente sociale e culturale che pone dei limiti, delle barriere.
    La prospettiva di intervento a favore delle persone disabili è mutata profondamente nel corso del tempo: si è passati, infatti, da un approccio di tipo ripartivo-assistenziale ad un modello di intervento basato sull’empowerment, cioè sulla promozione dell’autodeterminazione dei soggetti. Questo significa che la persona disabile non viene considerata come soggetto che usufruisce passivamente di determinate prestazioni messe in atto a suo favore; la persona, al contrario, viene considerata come soggetto attivo, responsabile in prima persona del suo ben-essere e coinvolta al fine di attivare e rafforzare le sue risorse in vista del perseguimento di obiettivi autodeterminati e della partecipazione alla vita comunitaria.
    Per favorire il ben-essere delle persone disabili occorre, dunque, partire dalle risorse, dai punti di forza, dalle potenzialità dell’individuo che, seppur residue, vanno in ogni momento incentivate e fatte emergere. Intervenire a favore di soggetti disabili non significa prendere decisioni al loro posto, risolvere i problemi o sostituirsi a loro nelle scelte. L’intervento dell’operatore, invece, ha la funzione di attivare e/o migliorare funzioni e competenze del soggetto in modo da consentirgli di utilizzare al meglio le proprie potenzialità all’interno di un contesto sociale più ampio possibile.
    L’intervento di aiuto, inoltre, dovrebbe facilitare l’accesso ai servizi, alle reti di sostegno, rimuovendo quelle “barriere” che sono spesso insite all’interno della società e che di fatto impediscono il ben-essere dell’individuo a più dimensioni.



    Bibliografia:
    1) Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    2) Medeghini R., Disabilità e corso di vita – Traiettorie, appartenenze e processi di inclusione delle differenze, Franco Angeli, 2006



    Lavoro sufficiente,
    Avete risposto alla richiesta dell'esercizio,
    manca solo una visione critica del gruppo
    la docente

    Il gruppo integra una riflessione critica

    Il ben-essere delle persone disabili deve essere raggiunto trovando un punto di equilibrio, le persona disabili hanno bisogno bisogno di agire come soggetti attivi, hanno bisogno di essere coinvolti e di dare il loro contributo.
    La società odierna non considera il diversabile come una persona con propri doveri, diritti e sentimenti personali, ma soltanto come uno che deve essere aiutato a inserirsi nel panorama comune nel modo più passivo possibile. Un diversabile, spesso, è considerato come un “qualcosa” da trattare con atteggiamenti particolari: lo si circonda di confuso vittimismo, lo si deve aiutare, gli si deve per forza, dimostrare amicizia. Proprio qui, a questo punto, nasce la compassione, un’arma a doppio taglio che realizza sì le aspettative immediate (il contatto con gli altri), ma crea anche falsi rapporti e, di conseguenza, frustrazioni” . Sarebbe opportuno, invece, percepire il diversabile non come un “oggetto”, un“ essere muto”, ma conferirgli la libertà di partecipazione attiva alla società favorendone dunque la visione stessa di sé come di una persona, di un “soggetto” attivo.
    Ciò che bisogna accettare è, in un certo senso, è lo statuto della diversità, come condizione normale dell’uomo.
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Conte Mariangela Sab Feb 04, 2012 11:52 am

    Relazione Cap. 1 Ben-essere nella disabilità del gruppo formato da Conte Mariangela, Forte Rossana, Natale Marianna e Palermo Sara.

    Il tema della felicità e del ben-essere degli individui é stato per secoli al centro di numerose riflessioni filosofiche, religiose, educative, ecc. E’ a partire dagli studi delle scienze sociali che si è iniziato a studiare i concetti in maniera più sistematica.
    Spesso i termini di felicità e di ben-essere sono utilizzati come sinonimi ma in realtà il termine benessere comprende un campo semantico molto più ampio. Lo stesso Aristotele parla di un processo di interazione e mutua influenza tra ben-essere personale e ben-essere collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale.
    Bisogna considerare che il ben-essere non può essere assimilato ad una generale condizione di ben-essere fisico o economico, ma rappresenta uno stato che comprende in sé più dimensioni.
    La psicologia positiva sostiene l’importanza di considerare il benessere, non come uno stato individuale ma come un “progetto dinamico, da condividere con gli altri”. Canevaro, al riguardo, ritiene che il ben-essere dell’individuo non si esaurisce all’interno di una condizione individuale “autarchica” ma si ricollega al concetto di “capitale sociale”, cioè all’insieme delle capacità che l’individuo ha di organizzarsi ed adattarsi grazie alla relazione con i contesti che lo circondano.
    Ognuno di noi, nascendo, ha la capacità di ben-essere, sia essa persona normodotata o disabile. Per giungere ad uno stato di benessere a più dimensioni, ciascun individuo ha bisogno di soddisfare i propri bisogni e di realizzarsi all’interno della società. Questi aspetti non sono sempre possibili per una persona disabile. In realtà questa difficoltà è legata molto spesso, non tanto ai deficit più o meno gravi del soggetto, quanto piuttosto all’ambiente che lo circonda. Non sono, infatti, gli individui ad essere svantaggiati ma, spesso, è proprio l’ambiente sociale e culturale che pone dei limiti, delle barriere.
    La prospettiva di intervento a favore delle persone disabili è mutata profondamente nel corso del tempo: si è passati, infatti, da un approccio di tipo ripartivo-assistenziale ad un modello di intervento basato sull’empowerment, cioè sulla promozione dell’autodeterminazione dei soggetti. Questo significa che la persona disabile non viene considerata come soggetto che usufruisce passivamente di determinate prestazioni messe in atto a suo favore; la persona, al contrario, viene considerata come soggetto attivo, responsabile in prima persona del suo ben-essere e coinvolta al fine di attivare e rafforzare le sue risorse in vista del perseguimento di obiettivi autodeterminati e della partecipazione alla vita comunitaria.
    Per favorire il ben-essere delle persone disabili occorre, dunque, partire dalle risorse, dai punti di forza, dalle potenzialità dell’individuo che, seppur residue, vanno in ogni momento incentivate e fatte emergere. Intervenire a favore di soggetti disabili non significa prendere decisioni al loro posto, risolvere i problemi o sostituirsi a loro nelle scelte. L’intervento dell’operatore, invece, ha la funzione di attivare e/o migliorare funzioni e competenze del soggetto in modo da consentirgli di utilizzare al meglio le proprie potenzialità all’interno di un contesto sociale più ampio possibile.
    L’intervento di aiuto, inoltre, dovrebbe facilitare l’accesso ai servizi, alle reti di sostegno, rimuovendo quelle “barriere” che sono spesso insite all’interno della società e che di fatto impediscono il ben-essere dell’individuo a più dimensioni.



    Bibliografia:
    1) Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    2) Medeghini R., Disabilità e corso di vita – Traiettorie, appartenenze e processi di inclusione delle differenze, Franco Angeli, 2006

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    manca solo una visione critica del gruppo.
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    Il gruppo integra una riflessione critica

    Il ben-essere delle persone disabili deve essere raggiunto trovando un punto di equilibrio, le persona disabili hanno bisogno bisogno di agire come soggetti attivi, hanno bisogno di essere coinvolti e di dare il loro contributo.
    La società odierna non considera il diversabile come una persona con propri doveri, diritti e sentimenti personali, ma soltanto come uno che deve essere aiutato a inserirsi nel panorama comune nel modo più passivo possibile. Un diversabile, spesso, è considerato come un “qualcosa” da trattare con atteggiamenti particolari: lo si circonda di confuso vittimismo, lo si deve aiutare, gli si deve per forza, dimostrare amicizia. Proprio qui, a questo punto, nasce la compassione, un’arma a doppio taglio che realizza sì le aspettative immediate (il contatto con gli altri), ma crea anche falsi rapporti e, di conseguenza, frustrazioni” . Sarebbe opportuno, invece, percepire il diversabile non come un “oggetto”, un“ essere muto”, ma conferirgli la libertà di partecipazione attiva alla società favorendone dunque la visione stessa di sé come di una persona, di un “soggetto” attivo.
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Benessere nella disabilità

    Messaggio  mariannanatale Sab Feb 04, 2012 1:53 pm

    Relazione Cap. 1 Ben-essere nella disabilità del gruppo formato da Conte Mariangela, Forte Rossana, Natale Marianna e Palermo Sara.

    Il tema della felicità e del ben-essere degli individui é stato per secoli al centro di numerose riflessioni filosofiche, religiose, educative, ecc. E’ a partire dagli studi delle scienze sociali che si è iniziato a studiare i concetti in maniera più sistematica.
    Spesso i termini di felicità e di ben-essere sono utilizzati come sinonimi ma in realtà il termine benessere comprende un campo semantico molto più ampio. Lo stesso Aristotele parla di un processo di interazione e mutua influenza tra ben-essere personale e ben-essere collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale.
    Bisogna considerare che il ben-essere non può essere assimilato ad una generale condizione di ben-essere fisico o economico, ma rappresenta uno stato che comprende in sé più dimensioni.
    La psicologia positiva sostiene l’importanza di considerare il benessere, non come uno stato individuale ma come un “progetto dinamico, da condividere con gli altri”. Canevaro, al riguardo, ritiene che il ben-essere dell’individuo non si esaurisce all’interno di una condizione individuale “autarchica” ma si ricollega al concetto di “capitale sociale”, cioè all’insieme delle capacità che l’individuo ha di organizzarsi ed adattarsi grazie alla relazione con i contesti che lo circondano.
    Ognuno di noi, nascendo, ha la capacità di ben-essere, sia essa persona normodotata o disabile. Per giungere ad uno stato di benessere a più dimensioni, ciascun individuo ha bisogno di soddisfare i propri bisogni e di realizzarsi all’interno della società. Questi aspetti non sono sempre possibili per una persona disabile. In realtà questa difficoltà è legata molto spesso, non tanto ai deficit più o meno gravi del soggetto, quanto piuttosto all’ambiente che lo circonda. Non sono, infatti, gli individui ad essere svantaggiati ma, spesso, è proprio l’ambiente sociale e culturale che pone dei limiti, delle barriere.
    La prospettiva di intervento a favore delle persone disabili è mutata profondamente nel corso del tempo: si è passati, infatti, da un approccio di tipo ripartivo-assistenziale ad un modello di intervento basato sull’empowerment, cioè sulla promozione dell’autodeterminazione dei soggetti. Questo significa che la persona disabile non viene considerata come soggetto che usufruisce passivamente di determinate prestazioni messe in atto a suo favore; la persona, al contrario, viene considerata come soggetto attivo, responsabile in prima persona del suo ben-essere e coinvolta al fine di attivare e rafforzare le sue risorse in vista del perseguimento di obiettivi autodeterminati e della partecipazione alla vita comunitaria.
    Per favorire il ben-essere delle persone disabili occorre, dunque, partire dalle risorse, dai punti di forza, dalle potenzialità dell’individuo che, seppur residue, vanno in ogni momento incentivate e fatte emergere. Intervenire a favore di soggetti disabili non significa prendere decisioni al loro posto, risolvere i problemi o sostituirsi a loro nelle scelte. L’intervento dell’operatore, invece, ha la funzione di attivare e/o migliorare funzioni e competenze del soggetto in modo da consentirgli di utilizzare al meglio le proprie potenzialità all’interno di un contesto sociale più ampio possibile.
    L’intervento di aiuto, inoltre, dovrebbe facilitare l’accesso ai servizi, alle reti di sostegno, rimuovendo quelle “barriere” che sono spesso insite all’interno della società e che di fatto impediscono il ben-essere dell’individuo a più dimensioni.



    Bibliografia:
    1) Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    2) Medeghini R., Disabilità e corso di vita – Traiettorie, appartenenze e processi di inclusione delle differenze, Franco Angeli, 2006

    Lavoro sufficiente,
    Avete risposto alla richiesta dell'esercizio,
    manca solo una visione critica del gruppo.
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    Il gruppo integra una riflessione critica

    Il ben-essere delle persone disabili deve essere raggiunto trovando un punto di equilibrio, le persona disabili hanno bisogno bisogno di agire come soggetti attivi, hanno bisogno di essere coinvolti e di dare il loro contributo.
    La società odierna non considera il diversabile come una persona con propri doveri, diritti e sentimenti personali, ma soltanto come uno che deve essere aiutato a inserirsi nel panorama comune nel modo più passivo possibile. Un diversabile, spesso, è considerato come un “qualcosa” da trattare con atteggiamenti particolari: lo si circonda di confuso vittimismo, lo si deve aiutare, gli si deve per forza, dimostrare amicizia. Proprio qui, a questo punto, nasce la compassione, un’arma a doppio taglio che realizza sì le aspettative immediate (il contatto con gli altri), ma crea anche falsi rapporti e, di conseguenza, frustrazioni” . Sarebbe opportuno, invece, percepire il diversabile non come un “oggetto”, un“ essere muto”, ma conferirgli la libertà di partecipazione attiva alla società favorendone dunque la visione stessa di sé come di una persona, di un “soggetto” attivo.
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    Messaggio  mdavino Sab Feb 04, 2012 4:55 pm

    Mi prenoto per Semantica della differenza LA RELAZIONE FORMATIVA NELL’ALTERITÀ - Cap. 1 L’ontologia della differenza nella relazione tras–formativa.
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    rosaria riccio


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  rosaria riccio Sab Feb 04, 2012 9:12 pm

    ESERCIZIO N. 2
    Ben-essere disabili
    Cap. 7 – Educarsi al ben-essere


    Ho scelto questo capitolo perché il suo titolo mi ha notevolmente incuriosito e il suo contenuto mi ha colpito positivamente. Il benessere (da ben-essere = “stare bene” o “esistere bene”) è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano, e la vera educazione è quella che fornisce ai bambini gli strumenti per avere un equilibrio affettivo e spirituale, non solo intellettuale e fisico.
    In effetti, contro il male di vivere, come lo chiamava Montale, l’unica arma è quella di educare i bambini al benessere interiore. A tale scopo, a partire dagli anni ’80 si è avvertita l’esigenza di definire delle “skills for life” intese come quelle abilità, competenze che è necessario apprendere per mettersi in relazione con gli altri e per affrontare i problemi, le pressioni e gli stress della vita quotidiana.
    L’OMS nel 1993 pubblica il documento “life skills education in schools” che contiene l’elenco delle abilità personali e relazionali utili per gestire positivamente i rapporti tra il singolo e gli altri soggetti. Si tratta di competenze sociali e relazionali che permettono ai ragazzi di affrontare in modo efficace le varie situazioni, di rapportarsi con autostima a se stessi, con fiducia agli altri e alla comunità (dalla famiglia, alla scuola, al gruppo degli amici, alla società di appartenenza, ecc.).
    Il nucleo fondamentale delle skills of life è costituito da:

    •Decision making (capacità di prendere decisioni): competenza che aiuta ad affrontare le dicisioni nei vari momenti della vita;
    •Problem solving (capacità di risolvere i problemi): capacità che permettere di risolvere i problemi della vita in maniera costruttiva;
    •Pensiero creativo: agisce in modo sinergico rispetto alle due competenze sopracitate e può aiutare a rispondere in maniera adattiva e flessibile alle situazioni di vita quotidiana;
    • Pensiero critico: è l’abilità ad analizzare le informazioni e le esperienze in maniera obiettiva contribuendo alla promozione della salute;
    •Comunicazione efficace: capacità di manifestare opinioni e desideri, bisogni e paure, esser capaci, in caso di necessità, di chiedere consiglio e aiuto;
    •Capacità di relazioni interpersonali: aiuta a mettersi in relazione e a interagire con gli altri in maniera positiva, riuscire a creare e mantenere relazioni amichevoli che possono avere forte rilievo sul benessere mentale e sociale;
    •Autoconsapevolezza: ovvero sia riconoscimento di sé, del proprio carattere, delle proprie forze e debolezze, dei propri desideri e delle proprie insofferenze. Sviluppare l’autoconsapevolezza può aiutare a riconoscere quando si è stressati o quando ci si sente sotto pressione;
    •Empatia: è la capacità di immaginare come possa essere la vita per un’altra persona anche in situazioni con le quali non si ha familiarità. Provare empatia può aiutare a capire e accettare i “diversi”; questo può aiutare a migliorare le interazioni sociali per es. in situazioni di differenze culturali o etniche. La capacità empatica può inoltre essere di sensibile aiuto per offrire sostegno alle persone che hanno bisogno di cure e di assistenza;
    •Gestione delle emozioni:implica il riconoscimento delle emozioni e la consapevolezza di quanto esse influenzino il comportamento e la capacità di rispondere alle medesime in maniera appropriata;
    •Gestione dello stress:consiste nel riconoscere le fonti di stress nella vita quotidiana, nel comprendere come queste ci “tocchino” e nell’agire in modo da controllare i diversi livelli di stress.

    Gli obiettivi dell’OMS possono essere sintetizzati nei tre seguenti punti:
    •Migliorare il benessere e la salute dei bambini e degli adolescenti tramite l’apprendimento di abilità e competenze utili per affrontare varie situazioni, anche di fronte all’imprevisto o a situazioni di forte stress emotivo (es. perdita di una persona cara; disoccupazione; insuccesso scolastico o professionale; fallimento in campo affettivo; ecc)
    •Prevenire comportamenti a rischio (es. malattie trasmesse sessualmente; uso di sostanze psicotrope; cattiva alimentazione; ecc..)
    •Formare i genitori, gli insegnanti, gli educatori in genere e/o eventuali animatori per sistemazioni di tempo libero (es. Sport).


    In sintesi l’OMS, con la promozione nelle scuole e nelle istituzioni formative non istituzionali, delle life skills, avvia una strategia di prevenzione attraverso processi di istruzione e di formazione, assumendone il concetto di salute del singolo come “stato di benessere psico-fisico e relazionale” in continuo divenire.

    Considerazioni:
    Educare di questi tempi è molto complicato. Ritengo molto avvincente e interessante la visione di educazione proposta dal filosofo indiano Paramhansa Yogananda che, nel suo famoso libro “Autobiografia di uno yogi” esprime perplessità sugli aridi risultati dell’educazione comune, che mira solo allo sviluppo del corpo e dell’intelletto escludendo i valori morali e spirituali, senza i quali nessun uomo può avvicinarsi alla felicità.
    La vera educazione è quella che fornisce ai bambini la conoscenza a tutti i livelli della propria esistenza, ciò che porta equilibrio affettivo e spirituale, intellettuale e fisico. Della stessa visione è anche Swami Kryananda che nel suo libro “Educare alla vita” evidenzia un sistema educativo completamente nuovo che oltre al nozionismo tipico delle scuole moderne, educa alle fondamentali qualità umane: dall’essere a proprio agio con se stessi (e di conseguenza con gli altri), al vivere nel modo più sano e naturale; sviluppare il talento nascosto e acquisire gli strumenti per essere più felici nella vita, il tutto condito con un mix di amore e saggezza per permettere ai piccoli di compiere i primi passi verso la conoscenza – vera.

    lAVORO SUFFICIENTEMENTE RAGIONATO
    LA DOCENTE

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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  PELELLA MARIAROSARIA Lun Feb 13, 2012 7:18 pm

    Presupposti teorici della classificazione internazionale del funzionamento ICF
    Spesso il termine handicap è affiancato al termine di menomazione,minoranza e disabilità a causa di una conoscenza superficiale del termine.La diffusione impropria di questi termini ha diffuso varie classificazioni.
    La prima classificazione è quella elaborata dall’OMS, “La Classificazione Internazionale delle malattie” (ICD, 1970) corrisponde all’esigenza di cogliere la causa delle patologie, fornendo per ogni sindrome e disturbo una descrizione di caratteristiche cliniche ed indicazioni diagnostiche. L’ICD si delinea dunque come una classificazione causale, focalizzando l’attenzione sull’aspetto eziologico della patologia. Le diagnosi delle malattie vengono cambiate in codici numerici che rendono possibile la memorizzazione, la ricerca e l’analisi dei dati.. L’ICD rivela ben presto vari limiti di applicazione e tutto ciò induce l’OMS ad elaborare un nuovo manuale di classificazione, in grado di focalizzare l’attenzione non solo sulla causa delle patologie, ma anche sulle loro conseguenze: “la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH, 1980). L’ICIDH non coglie la causa della patologia, ma anche l’importanza e l’influenza che il contesto ambientale provoca sullo stato di salute delle popolazioni. Con l’ICIDH non si parte più dal concetto di malattia inteso come menomazione, ma dal concetto di salute, inteso ,bensì,come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione con l’ambiente. L’ICIDH è caratterizzato da tre componenti fondamentali, attraverso le quali vengono analizzate a valutate le conseguenze delle malattie:
    - la menomazione, come danno organico e/o funzionale;
    - la disabilità, come perdita di capacità operative presenti nella persona a causa della menomazione;
    - svantaggio (handicap), come difficoltà che l’individuo ha nell’ambiente circostante a causa della menomazione. Il 22 gennaio 2011 è stata approvata dal Comitato Esecutivo dell ‘OMS una risoluzione che invitava tutti i Paesi ad adottare una nuova classificazione, dal titolo “Classificazione internazionale del funzionamento ,della disabilità e della salute”,che cambia ulteriormente l’approccio al problema della disabilità,partendo dalla definizione prima dello stato di salute della persona,per poi determinare un deficit ad esso. La classificazione ICF non si riferisce solo alle persone disabili,ma è una modalità per definire le strutture corporee e il loro funzionamento. Nell’ ICF il termine handicap è completamente superato come sono secondarie le cause dei diversi deficit,mentre diventano centrali le conseguenze personali e sociali di una patologia. Il documento matte in rilievo quattro descrittori:le funzioni corporee,le strutture corporee, l’attività e partecipazione ed i fattori ambientali. Negli ultimi vent’ anni è entrata nell’ uso comune la dizione “portatore di handicap”che si è evoluto in “soggetto in situazione di handicap”. Nella prima definizione si definisce un collegamento tra persona e deficit ,in quanto l’ handicap è una caratteristica propria del soggetto. Nella seconda definizione il soggetto è invece considerato indipendentemente dal deficit , ma viene riconosciuto in relazione ad una situazione di svantaggio,che può essere anche un contesto in qualche caso modificabile ed è sempre una condizione che è rappresenta una difficoltà di integrazione sociale. Nel documento ICF si evidenzia la differenza tra handicap e disabilità,chiarendo che spesso non è la menomazione che determina la situazione di handicap,ma sono le condizioni sociali che limitano la piena espressione di abilità diverse. Una deformità può,ad esempio,dare origine ad ostacoli nei normali tentativi di instaurare dei rapporti sociali, essa determina l’handicap ma non la disabilità. Una deformità può,ad esempio,dare origine ad ostacoli nei normali tentativi di creare dei rapporti sociali;essa determina l‘ handicap ma non la disabilità .Nel documento ICF,inoltre,si definisce la connessione tra salute e fattori estrinseci della disabilità,come modelli sociali,norme,territorio,ambiente. Inoltre,si definiscono quei fattori personali che influiscono nella qualità della vita del diversamente abile e possono condizionarne la piena realizzazione.
    Dalla nostra relazione abbiamo colto che nonostante si siano succeduti diverse classificazioni l’ ICF è quella più importante perche non guarda ciò che una persona” non è in grado di fare,ma quello che sa fare” valorizzando le potenzialità. La persona diversamente abile non deve essere considerata uno scarto della normalità, ma un potenziale positivo,deve rappresentare una risorsa per la società.

    Maria Teresa Esposito
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Maria Teresa Esposito Gio Feb 16, 2012 3:51 pm

    Uno sguardo oltre.....la disabilità

    Come ben si evince dalla lettura del capitolo,non esiste un modello univoco per definire la disabilità,ed è proprio per la sua natura multisfaccettata che nel corso degli anni si sono sviluppati vari modelli.
    L'attuale concetto di disabilità nasce come reazione al cosiddetto “Modello Medico” ,il quale si concentrava per lo più sul deficit dell'individuo e non prendeva in considerazione le sue potenzialità come persona.
    La disabilità veniva vista esclusivamente come un problema medico del singolo individuo o come “una tragedia personale”,e in conseguenza di ciò le persone con disabilità venivano tenute a distanza dalle persone “normali”.., totalmente dipendenti da professionisti del campo medico e bisognose quindi dell'assistenza.
    L'approccio medico individualistico viene associato all'INTERNATIONAL CLASSIFICATION of IMPAIRMENT and HANDICAP (ICIDH) ,il quale per giuste ragioni è stato fortemente criticato ,in quanto come pure sostenne Oliver, non riesce a tenere in considerazionr aspetti più ampi della disabilità.
    Con il “Modello Sociale” ci si è allontanati dal vecchio paradigma; già nella seconda metà degli anni '50 gli Stati Uniti s'impegnarono nella rimozione di tutte quelle barriere architettoniche presenti nella società ,per cui la necessità di considerare la disabilità come un problema non solo del singolo,ma della società,e di coinvolgere quindi il gruppo sociale di appartenenza.
    Con i movimenti sociali degli anni '60-'70 la lunga contrapposizione tra questi modelli sembrò attenuarsi con una nuova prospettiva sviluppata dallo psichiatra americano George Engel,meglio definita come “ Modello Biopsicosociale”,un approccio quest'ultimo che pone al centro la persona disabile con i suoi bisogni.
    Secondo tale modello per comprendere e risolvere una malattia è necessario occuparsi non solo degli aspetti biologici,ma anche di quelli psicologici,familiari e sociali dell'individuo,tutti integrati tra loro. Esso si configura come una strategia di approccio alla persona basta su una concezione multidimensionale della Salute ,che non viene intesa come semplice assenza di malattia ma piuttosto come uno “Stato di completo Benessere Fisico,Psichico e Sociale” (OMS).
    La mente e il corpo sono considerati un unico elemento ciascuno in grado d'influenzare l'altro,si abbandona l'ottica orientata alla mera Istituzionalizzazione e Ricovero dal momento in cui il trattamento riguarda l'intera persona nella sua globalità,e non più quindi solamente i sintomi fisici associati alla malattia..,comprendendo tanto per fare un esempio l'incoraggiamento a cambiare comportamenti e stili di vita.
    Dal Modello biopiscosociale emergono due aspetti innovativi:
    L'affrancamento definitivo dalla dimensione biologica-organismica e La rinuncia a riconoscere lo stato di salute come conseguenza diretta dell'assenza di malattia.
    Ne consegue che tale modello in realtà è rivolto a ciascun individuo,dato che chiunque può sperimentare nell'arco della propria esistenza ,una qualche forma di disabilità.
    Ed ecco che nel maggio 2001,sulla base di tale scenario l'OMS ha pubblicato L'INTERNATIONAL CLASSIFICATIONE of FUNCTIONING,DISABILITY, and HEALTH (ICF) ,un nuovo strumento di classificazione dove non si parla più di “soggetto portatore di handicap”,la quale evidenzia appunto un collegamento tra persona e deficit poiché l'handicap viene vista come una caratteristica propria del soggetto, ma si parla di “soggetto in situazione di handicap” dove il soggetto è considerato indipendentemente dal deficit e viene riconosciuto in relazione ad una situazione di svantaggio.
    Un ulteriore modello molto valido e interessante è il CAPABILITY APPROACH dell'economista Amartya Sen,dove un ruolo chiave è attribuito alla libertà individuale nel processo di sviluppo sociale,quest'ultimo inteso come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli individui.
    Secondo l'economista indiano,andrebbero eliminate tutte quelle “illibertà” e ostacoli che lasciano agli uomini poche scelte e poche occasioni di agire,focalizzandosi sul tipo di vita che le persone sono in grado di vivere,nonchè l'opportunità di raggiungere determinati stati di “essere” e di “fare” che rendono la vita degna di essere vissuta,infatti per capabilities s'intendono proprio le “opportunità pratiche”.
    Il Benessere quindi , ed una soddisfacente qualità di vita ,rappresenta il punto focale di tale approccio le cui origini a ben vedere possono essere rintracciate nel pensiero aristotelico,dove appunto vi era una concezione del bene centrata sulle capacità e sulle funzioni dell'uomo,e il rifiuto di considerare la ricchezza ,intesa come semplice possesso di beni, come un adeguato criterio di valutazione del benessere.
    Da questa analisi è fondamentale a mio avviso abbondanare la forma mentis assistenziale e concentrarsi piuttosto sulla scelta di quegli ambienti,attvità,politiche ed interventi che restituiscano dignità alla persona e mirino ad una reale inclusione sociale,imparando soprattutto ad andare oltre e considerare la disabilità non più come un deficit o una mancanza a livello organico o psichico,ma a considerarla piuttosto come una "condizione".
    La possiblità di raggiungere i propri scopi grazie ad un contesto favorevole,il coinvolgimento in attività interessanti,l'importanza di ricoprire ruoli sociali,il posto di lavoro,sono tutte variabili che incidono in modo significativo sul benessere delle persone.
    La percezione di avere delle “opportunità”,di avere uno scopo,ed essere nelle condizioni di poterlo raggiungere...,credo che non può che migliorare la qualità di vita di ciascun essere umano, portando a quel senso di benessere e appagamento a cui noi tutti aspiriamo,senza alcuna distinzione.
    Mi viene da pensare al caso di oscar Pistorius affrontato durante il corso.....

    Maria Teresa Esposito


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Francesca Gravina Dom Feb 19, 2012 10:46 am

    Cap 6 “verso un’educazione inclusiva” libro Ben-essere disabili


    Il discorso della disabilità ed educazione è veramente recente. Gli sviluppi che si sono visti in questo campo si sono avuti gradualmente. Si è passati dalla parola chiave “inserimento” scolastico, per poi passare a “integrazione” scolastica e infine approdare a questa nuova visione di “inclusione”
    L‘educazione è un processo fondamentale che oggi è visto con occhi nuovi! Se si pensa alle Indicazioni nazionali per il curricolo del 2007 (sono le linee guida che attualmente l’insegnante ha a disposizione per indirizzare il proprio lavoro) nel saggio introduttivo “ Cultura Scuola e Persona” vengono delineati i principi sui quali basare il nuovo modello di educazione :

    ”Le finalità della scuola possono essere definite a partire dalla persone. […] lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti. […] In questa prospettiva , i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora […] con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di disabilità o di svantaggio. Questo comporta saper accettare la sfida che la diversità pone: innanzitutto nella classe dove le differenze vanno riconosciute e valorizzate evitando che si trasformino in disuguaglianze”



    Dunque al centro del percorso educativo-formativo c’è la persona come soggetto pensante attivo che interagisce con il contesto che a sua volta condiziona il modo in cui egli si formerà.
    Le parole d’ordine di questo capitolo, come d’altronde delle indicazioni, sono a mio avviso : rispetto identità, Educazione, Flessibilità, Mettersi in discussione nelle pratiche e nei valori culturali, Ripensarsi.
    La comunità internazionale ha iniziato a sviluppare una visione dell’educazione come , “la necessaria utopia” Educare a certi valori significa riuscire a creare una società che rispetti quei valori. Questo significa che l’educazione, punto nevralgico per una società migliore, deve essere UN DIRITTO DI TUTTI.
    Nel 2006 è stata sottoscritta La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. Sottoscritta dall’Italia nel 2007, diventa legge il 3 marzo 2009 ( legge 18) e garantisce la promozione , la protezione e assicura il pieno e giusto godimento dei diritti umani per le persone con disabilità.
    L’articolo 24 della Convenzione “garantisce un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli di apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita”
    L’educazione inclusiva è dunque dalla definizione di Dyson : il cercare di rispondere simultaneamente agli studenti che sono diversi l’uno dall’altro in modi importanti alcuni dei quali pongono sfide particolari alla scuola, massimizzare la loro partecipazione anche e soprattutto a scuola.
    Seguendo questo modello si realizza una Società inclusiva dove non ci sarà discriminazione. il che vuol dire che parlare di educazone inclusiva significa lavorare perché i diritti umani siano conosciuti , condivisi e praticati.
    Ovviamente per poter creare educazione inclusiva c’è bisogno dell’accordo tra tutti gli stati firmatari sui valori a cui rifarsi e le strategie da attuare in tutti i settori del vivere civile.
    Fare educazione inclusiva significherà ri-pensare alla scuola da un punto di vista strutturale e organizzativo. Dovranno esserci cambiamenti nei contenuti, nelle metodologie, negli strumenti nelle strutture.
    L’inclusione è un processo in cui si attua una ricerca senza fine per trovare modi migliori di rispondere alla diversità. Essa ha come imperativo l’identificazione e la rimozione delle barriere favorendo la presenza , la partecipazione e il successo di tutti gli studenti.
    Questa visione dell’inclusione nasce dal cambiamento di prospettiva sulla disabilità vista non più da un approccio medico come tragedia personele la cui responsabilità per il miglioramento della qualità della vita era solo un affare del disabile, ma con il nuovo approccio bio-psico-sociale che punta a ricnoscere i diritti alla completa partecipazione alla vita sociale del disabile e accettando che molti dei suoi cosi detti limiti siano causati dal contesto.
    Una frase mi ha colpito molto : “Piu in generale è perché le società sono organizzate per incontrare i bisogni della maggioranza delle persone non disabili rispetto alla minoranza delle persone disabili.”
    Mi ha rimandato a un saggio di Alexis de Tocqueville intitolato la democrazia in america.
    Tocqueville parlava della democrazia definendola un’ eguaglianza di condizioni ma mettendo in rilievo, la doppia faccia del sistema democratico: la tirannide della maggioranza« Vedo chiaramente nell' eguaglianza due tendenze : una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l' altra che la ridurrebbe volentieri a non pensare più. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere».
    Il rischio dunque è che la democrazia trasformi, attraverso i suoi meccanismi, l’idea dell’inclusione che tende ad un pensiero, e a pratiche flessibili promuovendo una sorta di livellamento che tende a sfociare nel dispotismo e dunque nella negazione della libertà.
    Questa riflessione l’ho voluta condividere perché la trovo attinente con il nostro percorso in classe, e in generale dell’approccio che la società spesso mette in atto per omologare.
    Stefano Oliverio nel saggio “l’inclusione interculturale come frontiera educativa” avverte come in un sistema democratico lo “spazio dell’incontro” può diventare lo spazio che ci separa. Se il termine inclusione lo si vede come un “portar dentro ciò che altrimenti resterebbe fuori” si corre il rischio di far diventare la democrazia un sistema totalizzante che cancella le diversità
    Sul tema di inclusione e democrazia ne ha parlato anche Iris Marion Young la quale a mio avviso argomenta in modo interessante un possibile approccio .
    La Young pensa che la democrazia sia un mezzo necessario e appropriato per promuovere cambiamenti verso una maggiore giustizia. La democrazia ha diversi gradi quindi secondo la Young la soluzione è individuare vie attraverso le quali raggiungere un perfezionamento della democrazia. Ma in linea con il libro ben-essere disabili,che parlava di inclusione come percorso senza fine , anche la Young dice che questo progetto è sempre in divenire ribadendo con forza che “ la legittimità normativa di una decisione democratica dipende dal gradi in cui coloro che ne sono interessati sono stati inclusi nei processi di deliberazione e hanno avuto l’oportunità di influenzarne gli esiti”
    Questa presa di posizione mi pare centri il discorso di prima su come sia fondamentale che tutti possano essere educati, cosi da poter influenzare attivamente il contesto verso una società gradualmente sempre piu inclusiva e democratica.
    Ovviamente per un educazione inclusiva molti sono i soggetti attivi che vanno a creare quella rete di interazioni che saldamente lavorano (o dovrebbero lavorare) sinergicamente verso lo stesso obiettivo di formazione e miglioramento del soggetto e di se stessi.
    I soggetti in questione sono anzitutto : I SISTEMI EDUCATIVI INCLUSIVI:
    Essi devono ri-pensarsi attraverso un ottica in cui il bambino non è un problema e lavorare per creare senso di appartenenza ed evitare esclusione sociale al loro interno che si rispecchierà poi all’esterno. Dyson parla di una “ecologia dell’inclusione” per definire le strategie e i supporti che le scuole hanno messo a disposizione per favorire inclusione e rendimento.
    Fondamentale è l’attenzione a organizzare un curriculum accessibile e inclusivo dove ci sia flessibilità e si tenga conto del retaggio linguistico, l’identità culturale e il genere. In questo modo si crea un progetto per tutti.
    In contrasto con il pensiero secondo cui l’educazione speciale debba essere mirata solo a specifici individui, l’educazione speciale può essere davvero l’educazione per tutti. Infatti consono curricoli standardizzati ma si basano sulle conoscenze degli alunni, ci sono diversi metodi e strumenti per accogliere le diverse intelligenze, si costruisce una relazione studente-insegnante profonda e positiva.
    Un altro soggetto fondamentale sono GLI INSEGNANTI
    Essi devono essere coscienti della propria posizione,gli insegnanti sono soggetti importanti che possono con il loro atteggiameto e le loro proposte lavorative, favorire o meno un processo di educazione-formazione dell’individuo. Molto dipende dal percorso formativo dell’insegnante, dalle sue esperienze, e dal contesto in cui lavora . Spesso l’insegnante si trova a dover fronteggiare atteggiamenti negativi da parte di altri colleghi che creano barriere all’inclusione. Molti insegnanti pensano che il disabile possa esere un problema che “ruba tempo” all’apprendimento della classe. Le ricerche dimostrano il contrario. Un buon insegnante è caratterizzato da attitudini e abilità che gli permettono di essere insegnanti sicuri ed efficienti in tutte le situazioni. Si potrà anche essere molto preparati sulla carta ma se nel proprio insegnamento non saranno presenti i principi di inclusione si sarà sempre preoccupati dell’equilibrio della classe. Si preoccuperanno del fatto che la disabilità toglie tempo alla classe.
    Diversamente gli insegnanti che hanno atteggiamenti positivi e meno apprensivi hanno piu fiducia in se stessi e sanno di essere co-responsabili nell’istruzione di tutti.
    Un aspetto fondamentale per una educazone all’inlusione è il raggiungimento di un Co-insegnamento: un team forte che si alterna per creare un ambiente di apprendimento sereno dove gli insegnanti condividono strategie, obiettivi, ruoli e principi tutto nel reciproco rispetto e liberta di cambiare pensiero.
    Un ultima ma non ultima figura della rete è LA FAMIGLIA
    Essa è da intendere non come un gruppo omogeneo ma individui che hanno dei bisogni e che possono molto spesso essere una vera risorsa.
    Importante che la scuola contatti la famiglia non solo quando c’è il problema ma anche e soprattutto per parlare e discutere di situazioni anche positive, la famiglia ha bisogno di essere supportata e informata. Spesso la scuola dimentica che esse è anche una risosrsa in quanto loro conosconomeglio di chiunque il bambino. I genitori devono essere soggetti attivi nell’educazione dei propri figli e nel processo di presa di decisione.
    Il lavoro di rete è cio per cui si può pensare ad un’ecologia del ben-essere sociale perché i vari soggetti mettono in correlazione gli aspetti biologici del soggetto con gli aspetti fisici dell’ambiente. Lambiente diventa lo sfondo dell’agire che a sua volta modifica il contesto verso un ben-essere sociale sempre maggiore.
    In conclusione si puo dire che un educazione inclusiva significa :
    - gestione efficace da parte del dirigente scolastico per incontrare i bisogni di tutti i bambini
    - consapevolezza che tutto il corpo docente può aiutare tutti i bambini ad apprendere
    - senso di ottimismo che tutti gli alunni possono avere sucesso
    - adattamenti per supportare i membri del corpo docente per incontrare anche i bisogni speciali degli insegnanti
    - impegno per fornire vasta gamma di curriculum
    Un nuovo approccio nell’educazione negli ultimi anni è quello della Capability. Essa collega l’educazione alla libertà umana.
    Per libertà si intendono capacità/abilità di vita nel senso di essere capaci di conoscere, agire e vivere in un ambiente sociale.
    L’educazone puo favorire l’acquisizione e l’espansione di capability e rendere autonomo un soggetto nel cercare di attivare un nuovo set di competenze.
    La disabilità sta nella limitazione di capability anche in relazione all’ambiente sociale.Questo sta a indicare sempre più come una menomazione non crei un handicap, è la società che omologa a stili di vita che includono certi modelli e ne escludono altri, se ci si trova negli esclusi ci si trova nella categoria della disabilità.

    Bibliografia
    MIUR “Indicazioni per il curricolo. Per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione” Roma 2007
    Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010
    Maura Striano (a cura di), pratiche educative per l'inclusione sociale, Francoangeli, Milano, 2010 (saggio di Stefano oliverio)

    Lavoro svolto da Gravina Francesca
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    Messaggio  danielatesone Lun Feb 20, 2012 2:46 pm

    ABBIAMO RELAZIONATO SUL CAPITOLO 5 BEN.ESSERE E DISABILITA’; VALUTARE ATTIVITA’ E PARTECIPAZIONE
    Gruppo formato da
    GRACCO ROSA
    TESONE DANIELA
    TESORO RAFFAELLA

    Valutare la partecipazione risolve il problema? Recenti studi hanno cercato di definire l’importanza della partecipazione, in particolare le teorie dello sviluppo, come quelle di Piaget e Vigoskij, enfatizzano la partecipazione attiva come una condizione essenziale per l’apprendimento e lo sviluppo, laddove con essa si intende una possibilità di trarre vantaggio dei benefici educativi e sociali, ovvero si intende migliorare la qualità della vita di una persona, sia essa abile o diversamente abile. Per favorire la partecipazione c’è bisogno di accessibilità all’ambiente, la quale può essere definita dagli elementi fisici, sociali o psicologici dell’ambiente, poiché gli elementi dell’ambiente naturale possono limitare la mobilità e di conseguenza le opportunità di partecipazione; allo stesso modo gli ambienti costruiti possono presentare delle barriere che ostacolano le attività di una persona disabile. L’ambiente primario dell’accessibilità è da sempre considerata la scuola, un ambiente per l’educazione e la socializzazione dei bambini e dei ragazzi, essa fornisce il contesto di base per lo sviluppo dell’indipendenza personale e delle esperienze di partecipazione nelle attività di comunità. A tal proposito l’ ICF considera l’attività e la partecipazione come due momenti fondamentali della valutazione. Gli strumenti utilizzati sono di diverso tipo a seconda dell’età del soggetto, riguardo agli adulti i principali sono due: il Perceived Handicap Questionnaire e il London Handicap Scale, i quali risultano più vicini alla misurazione della sola componente partecipazione. In particolare il primo misura la percezione della partecipazione ( confrontata con altri) piuttosto che l’attuale partecipazione; il secondo misura gli ostacoli con cui il soggetto disabile si deve confrontare.
    Prima di spostare l’attenzione sul processo di valutazione dei bambini, proviamo a rispondere alla domanda con cui abbiamo esordito riguardo gli adulti facendo delle considerazioni personali sul concetto di partecipazione, intesa da noi come partecipazione all’interno di una “rete sociale” composta da molti soggetti, che rappresentano nodi consistenti, in grado di dare un sostegno forte, in quanto collegati tra loro in modo reciproco. Il compito di tale rete sociale, dovrebbe essere quello di far vedere al soggetto disabile come non è lasciato solo, ma viene aiutato ad affrontare la sua condizione esistenziale nell’ambito di una comunità e una società più allargata, senza restringere e ridurre gli interventi nei suoi confronti a scopi solo assistenziali e/o medicalizzati. Motivo per cui valutare la partecipazione forse non risolve il problema, ma rappresenta una prima conquista ed apre ad una speranza di future realizzazioni.
    A differenza dell’adulto, il bambino attraversa diverse fasi di cambiamento che vanno dall’infanzia all’adolescenza e che comportano mutamenti anche negli ambienti. Molta dell’esperienza vissuta dal bambino viene acquisita all’interno della famiglia che si configura come un importante fattore ambientale che interagisce con il bambino. La dipendenza del bambino dai genitori cambierà man mano che il bambino crescerà, e sarà importante prestare particolare attenzione a questo aspetto soprattutto durante l’adolescenza. I giovani disabili possono avere delle prospettive differenti rispetto ai loro compagni senza disabilità, e quindi all’inizio è opportuno valutare attraverso l’osservazione diretta o self-report. Esistono però ulteriori difficoltà dovute al tipo di menomazione e quindi è necessario utilizzare misure di valutazioni alternative.
    L’ICF definisce la partecipazione come coinvolgimento nelle situazioni di vita e include quindi due qualificatori per l’attività e la partecipazione: la capacità, ossia quello che un bambino può fare all’interno di un ambiente ideale, e la performance, ossia quello che un bambino fa abitualmente nell’ambiente in cui vive. L’approccio della capability considera le esperienze e le situazioni di vita come funzionamenti possibili, o come dice Seri, come “essere” e “fare”. La partecipazione,come è descritta nell’ICF, è coerente con il fare, mentre l’essere è coerente con la qualità soggettiva di vita. La gamma di funzionamenti possibili per i bambini disabili può essere ristretto a causa della loro capacità o essere limitato dal loro ambiente fisico o sociale. Secondo Sen quello che è importante è che i bambini abbiano capacità di partecipazione. Per valutare la capability si chiede al bambino se è in grado di camminare a scuola, a casa; se si decide, invece, di valutare la performance si chiede al bambino se cammina a casa, a scuola. Un bambino con deficit nel movimento potrebbe essere in grado di camminare in un ambiente ideale e quindi avere la capacità, e potrebbe anche camminare in alcuni ambienti se volesse, quindi la capability, ma potrebbe anche scegliere di non farlo. Misurare la capacità dei bambini e la performance senza valutare la capability perde l’opportunità di includere i diritti fondamentali del bambini e di scegliere la vita che essi vogliono condurre.

    Abbiamo ritenuto opportuno approfondire le capability e riportando una recensione di Diego Fusaro:
    Con l’espressione capacità (capabilities) Sen intende invece la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. Per questa ragione, Sen sottopone a critica tutte quelle teorie che fanno della libertà un qualcosa di meramente strumentale, privo di valore intrinseco: gli stessi Dworkin e Rawls hanno soffermato la loro attenzione più sui mezzi e le risorse che portano alla libertà che non sull’estensione della libertà in se stessa. I “beni primari” di cui dice Rawls e le “risorse” di cui scrive Dworkin sono agli occhi di Sen degli indicatori assai imprecisi e vaghi di ciò che si è realmente liberi di fare e di essere. Ancora più vago e impreciso è il “reddito”, poiché una persona malata e bisognosa di cure è sicuramente in una condizione peggiore di una persona sana avente il suo stesso reddito. La conclusione a cui Sen perviene passando dalla critica delle altrui posizioni è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita o well-being generale (cioè non ristretto entri parametri strumentali o economici). Fedele a questa impostazione, Sen è giunto, nei suoi scritti successivi, a tratteggiare una teoria dello sviluppo umano in termini di libertà (development as freedom). E, nel fare ciò, si è direttamente riallacciato alla tradizione greca, inaugurata da Aristotele, dell’eudaimonìa: l’espressione greca eudaimonìa non corrisponde affatto alla sua usuale traduzione inglese in happiness (felicità), ma ha piuttosto a che vedere col termine fulfillment, che vuol direrealizzazione completa di sè e che può essere resa con la bella immagine di una “vita fiorente” (flourishing life), ossia di una vita che fiorisce in tutte le sue potenzialità.

    http://www.filosofico.net/amartyasen.htm
    Disabili e rete sociale. Modelli e buone pratiche di integrazione Di Paolino Causin,Severino De Pier
    Ben-essere e disabili. valutare attività e partecipazione.
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    Messaggio  raffaellatesoro Lun Feb 20, 2012 2:47 pm

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    Valutare la partecipazione risolve il problema? Recenti studi hanno cercato di definire l’importanza della partecipazione, in particolare le teorie dello sviluppo, come quelle di Piaget e Vigoskij, enfatizzano la partecipazione attiva come una condizione essenziale per l’apprendimento e lo sviluppo, laddove con essa si intende una possibilità di trarre vantaggio dei benefici educativi e sociali, ovvero si intende migliorare la qualità della vita di una persona, sia essa abile o diversamente abile. Per favorire la partecipazione c’è bisogno di accessibilità all’ambiente, la quale può essere definita dagli elementi fisici, sociali o psicologici dell’ambiente, poiché gli elementi dell’ambiente naturale possono limitare la mobilità e di conseguenza le opportunità di partecipazione; allo stesso modo gli ambienti costruiti possono presentare delle barriere che ostacolano le attività di una persona disabile. L’ambiente primario dell’accessibilità è da sempre considerata la scuola, un ambiente per l’educazione e la socializzazione dei bambini e dei ragazzi, essa fornisce il contesto di base per lo sviluppo dell’indipendenza personale e delle esperienze di partecipazione nelle attività di comunità. A tal proposito l’ ICF considera l’attività e la partecipazione come due momenti fondamentali della valutazione. Gli strumenti utilizzati sono di diverso tipo a seconda dell’età del soggetto, riguardo agli adulti i principali sono due: il Perceived Handicap Questionnaire e il London Handicap Scale, i quali risultano più vicini alla misurazione della sola componente partecipazione. In particolare il primo misura la percezione della partecipazione ( confrontata con altri) piuttosto che l’attuale partecipazione; il secondo misura gli ostacoli con cui il soggetto disabile si deve confrontare.
    Prima di spostare l’attenzione sul processo di valutazione dei bambini, proviamo a rispondere alla domanda con cui abbiamo esordito riguardo gli adulti facendo delle considerazioni personali sul concetto di partecipazione, intesa da noi come partecipazione all’interno di una “rete sociale” composta da molti soggetti, che rappresentano nodi consistenti, in grado di dare un sostegno forte, in quanto collegati tra loro in modo reciproco. Il compito di tale rete sociale, dovrebbe essere quello di far vedere al soggetto disabile come non è lasciato solo, ma viene aiutato ad affrontare la sua condizione esistenziale nell’ambito di una comunità e una società più allargata, senza restringere e ridurre gli interventi nei suoi confronti a scopi solo assistenziali e/o medicalizzati. Motivo per cui valutare la partecipazione forse non risolve il problema, ma rappresenta una prima conquista ed apre ad una speranza di future realizzazioni.
    A differenza dell’adulto, il bambino attraversa diverse fasi di cambiamento che vanno dall’infanzia all’adolescenza e che comportano mutamenti anche negli ambienti. Molta dell’esperienza vissuta dal bambino viene acquisita all’interno della famiglia che si configura come un importante fattore ambientale che interagisce con il bambino. La dipendenza del bambino dai genitori cambierà man mano che il bambino crescerà, e sarà importante prestare particolare attenzione a questo aspetto soprattutto durante l’adolescenza. I giovani disabili possono avere delle prospettive differenti rispetto ai loro compagni senza disabilità, e quindi all’inizio è opportuno valutare attraverso l’osservazione diretta o self-report. Esistono però ulteriori difficoltà dovute al tipo di menomazione e quindi è necessario utilizzare misure di valutazioni alternative.
    L’ICF definisce la partecipazione come coinvolgimento nelle situazioni di vita e include quindi due qualificatori per l’attività e la partecipazione: la capacità, ossia quello che un bambino può fare all’interno di un ambiente ideale, e la performance, ossia quello che un bambino fa abitualmente nell’ambiente in cui vive. L’approccio della capability considera le esperienze e le situazioni di vita come funzionamenti possibili, o come dice Seri, come “essere” e “fare”. La partecipazione,come è descritta nell’ICF, è coerente con il fare, mentre l’essere è coerente con la qualità soggettiva di vita. La gamma di funzionamenti possibili per i bambini disabili può essere ristretto a causa della loro capacità o essere limitato dal loro ambiente fisico o sociale. Secondo Sen quello che è importante è che i bambini abbiano capacità di partecipazione. Per valutare la capability si chiede al bambino se è in grado di camminare a scuola, a casa; se si decide, invece, di valutare la performance si chiede al bambino se cammina a casa, a scuola. Un bambino con deficit nel movimento potrebbe essere in grado di camminare in un ambiente ideale e quindi avere la capacità, e potrebbe anche camminare in alcuni ambienti se volesse, quindi la capability, ma potrebbe anche scegliere di non farlo. Misurare la capacità dei bambini e la performance senza valutare la capability perde l’opportunità di includere i diritti fondamentali del bambini e di scegliere la vita che essi vogliono condurre.

    Abbiamo ritenuto opportuno approfondire le capability e riportando una recensione di Diego Fusaro:
    Con l’espressione capacità (capabilities) Sen intende invece la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. Per questa ragione, Sen sottopone a critica tutte quelle teorie che fanno della libertà un qualcosa di meramente strumentale, privo di valore intrinseco: gli stessi Dworkin e Rawls hanno soffermato la loro attenzione più sui mezzi e le risorse che portano alla libertà che non sull’estensione della libertà in se stessa. I “beni primari” di cui dice Rawls e le “risorse” di cui scrive Dworkin sono agli occhi di Sen degli indicatori assai imprecisi e vaghi di ciò che si è realmente liberi di fare e di essere. Ancora più vago e impreciso è il “reddito”, poiché una persona malata e bisognosa di cure è sicuramente in una condizione peggiore di una persona sana avente il suo stesso reddito. La conclusione a cui Sen perviene passando dalla critica delle altrui posizioni è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita o well-being generale (cioè non ristretto entri parametri strumentali o economici). Fedele a questa impostazione, Sen è giunto, nei suoi scritti successivi, a tratteggiare una teoria dello sviluppo umano in termini di libertà (development as freedom). E, nel fare ciò, si è direttamente riallacciato alla tradizione greca, inaugurata da Aristotele, dell’eudaimonìa: l’espressione greca eudaimonìa non corrisponde affatto alla sua usuale traduzione inglese in happiness (felicità), ma ha piuttosto a che vedere col termine fulfillment, che vuol direrealizzazione completa di sè e che può essere resa con la bella immagine di una “vita fiorente” (flourishing life), ossia di una vita che fiorisce in tutte le sue potenzialità.

    http://www.filosofico.net/amartyasen.htm
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    Messaggio  rossanafruttaldo Lun Feb 20, 2012 3:01 pm

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    Messaggio  rosagracco Lun Feb 20, 2012 3:05 pm

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    Valutare la partecipazione risolve il problema? Recenti studi hanno cercato di definire l’importanza della partecipazione, in particolare le teorie dello sviluppo, come quelle di Piaget e Vigoskij, enfatizzano la partecipazione attiva come una condizione essenziale per l’apprendimento e lo sviluppo, laddove con essa si intende una possibilità di trarre vantaggio dei benefici educativi e sociali, ovvero si intende migliorare la qualità della vita di una persona, sia essa abile o diversamente abile. Per favorire la partecipazione c’è bisogno di accessibilità all’ambiente, la quale può essere definita dagli elementi fisici, sociali o psicologici dell’ambiente, poiché gli elementi dell’ambiente naturale possono limitare la mobilità e di conseguenza le opportunità di partecipazione; allo stesso modo gli ambienti costruiti possono presentare delle barriere che ostacolano le attività di una persona disabile. L’ambiente primario dell’accessibilità è da sempre considerata la scuola, un ambiente per l’educazione e la socializzazione dei bambini e dei ragazzi, essa fornisce il contesto di base per lo sviluppo dell’indipendenza personale e delle esperienze di partecipazione nelle attività di comunità. A tal proposito l’ ICF considera l’attività e la partecipazione come due momenti fondamentali della valutazione. Gli strumenti utilizzati sono di diverso tipo a seconda dell’età del soggetto, riguardo agli adulti i principali sono due: il Perceived Handicap Questionnaire e il London Handicap Scale, i quali risultano più vicini alla misurazione della sola componente partecipazione. In particolare il primo misura la percezione della partecipazione ( confrontata con altri) piuttosto che l’attuale partecipazione; il secondo misura gli ostacoli con cui il soggetto disabile si deve confrontare.
    Prima di spostare l’attenzione sul processo di valutazione dei bambini, proviamo a rispondere alla domanda con cui abbiamo esordito riguardo gli adulti facendo delle considerazioni personali sul concetto di partecipazione, intesa da noi come partecipazione all’interno di una “rete sociale” composta da molti soggetti, che rappresentano nodi consistenti, in grado di dare un sostegno forte, in quanto collegati tra loro in modo reciproco. Il compito di tale rete sociale, dovrebbe essere quello di far vedere al soggetto disabile come non è lasciato solo, ma viene aiutato ad affrontare la sua condizione esistenziale nell’ambito di una comunità e una società più allargata, senza restringere e ridurre gli interventi nei suoi confronti a scopi solo assistenziali e/o medicalizzati. Motivo per cui valutare la partecipazione forse non risolve il problema, ma rappresenta una prima conquista ed apre ad una speranza di future realizzazioni.
    A differenza dell’adulto, il bambino attraversa diverse fasi di cambiamento che vanno dall’infanzia all’adolescenza e che comportano mutamenti anche negli ambienti. Molta dell’esperienza vissuta dal bambino viene acquisita all’interno della famiglia che si configura come un importante fattore ambientale che interagisce con il bambino. La dipendenza del bambino dai genitori cambierà man mano che il bambino crescerà, e sarà importante prestare particolare attenzione a questo aspetto soprattutto durante l’adolescenza. I giovani disabili possono avere delle prospettive differenti rispetto ai loro compagni senza disabilità, e quindi all’inizio è opportuno valutare attraverso l’osservazione diretta o self-report. Esistono però ulteriori difficoltà dovute al tipo di menomazione e quindi è necessario utilizzare misure di valutazioni alternative.
    L’ICF definisce la partecipazione come coinvolgimento nelle situazioni di vita e include quindi due qualificatori per l’attività e la partecipazione: la capacità, ossia quello che un bambino può fare all’interno di un ambiente ideale, e la performance, ossia quello che un bambino fa abitualmente nell’ambiente in cui vive. L’approccio della capability considera le esperienze e le situazioni di vita come funzionamenti possibili, o come dice Seri, come “essere” e “fare”. La partecipazione,come è descritta nell’ICF, è coerente con il fare, mentre l’essere è coerente con la qualità soggettiva di vita. La gamma di funzionamenti possibili per i bambini disabili può essere ristretto a causa della loro capacità o essere limitato dal loro ambiente fisico o sociale. Secondo Sen quello che è importante è che i bambini abbiano capacità di partecipazione. Per valutare la capability si chiede al bambino se è in grado di camminare a scuola, a casa; se si decide, invece, di valutare la performance si chiede al bambino se cammina a casa, a scuola. Un bambino con deficit nel movimento potrebbe essere in grado di camminare in un ambiente ideale e quindi avere la capacità, e potrebbe anche camminare in alcuni ambienti se volesse, quindi la capability, ma potrebbe anche scegliere di non farlo. Misurare la capacità dei bambini e la performance senza valutare la capability perde l’opportunità di includere i diritti fondamentali del bambini e di scegliere la vita che essi vogliono condurre.

    Abbiamo ritenuto opportuno approfondire le capability e riportando una recensione di Diego Fusaro:
    Con l’espressione capacità (capabilities) Sen intende invece la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. Per questa ragione, Sen sottopone a critica tutte quelle teorie che fanno della libertà un qualcosa di meramente strumentale, privo di valore intrinseco: gli stessi Dworkin e Rawls hanno soffermato la loro attenzione più sui mezzi e le risorse che portano alla libertà che non sull’estensione della libertà in se stessa. I “beni primari” di cui dice Rawls e le “risorse” di cui scrive Dworkin sono agli occhi di Sen degli indicatori assai imprecisi e vaghi di ciò che si è realmente liberi di fare e di essere. Ancora più vago e impreciso è il “reddito”, poiché una persona malata e bisognosa di cure è sicuramente in una condizione peggiore di una persona sana avente il suo stesso reddito. La conclusione a cui Sen perviene passando dalla critica delle altrui posizioni è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita o well-being generale (cioè non ristretto entri parametri strumentali o economici). Fedele a questa impostazione, Sen è giunto, nei suoi scritti successivi, a tratteggiare una teoria dello sviluppo umano in termini di libertà (development as freedom). E, nel fare ciò, si è direttamente riallacciato alla tradizione greca, inaugurata da Aristotele, dell’eudaimonìa: l’espressione greca eudaimonìa non corrisponde affatto alla sua usuale traduzione inglese in happiness (felicità), ma ha piuttosto a che vedere col termine fulfillment, che vuol direrealizzazione completa di sè e che può essere resa con la bella immagine di una “vita fiorente” (flourishing life), ossia di una vita che fiorisce in tutte le sue potenzialità.

    http://www.filosofico.net/amartyasen.htm
    Disabili e rete sociale. Modelli e buone pratiche di integrazione Di Paolino Causin,Severino De Pier
    Ben-essere e disabili. valutare attività e partecipazione.
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Relazione Esercizio 2- BEN-ESSERE DISABILI

    Messaggio  giannilamontagna Mar Feb 21, 2012 6:39 pm

    Relazione del primo capitolo L' ontologia della differenza nalla relazione trans-formativa. Testo Gramigna. A., Semantica della differenza. La relazione formativa nell’ alterità, Aracne, Roma, 2005.

    Leggendo il capitolo da me scelto. Ho pensato al pensiero filosofico e sociologico di Emile Durkaime. Riassumendolo, senza volerlo sminuire, Durkaime afferma che nelle società semplici c’è una bassa divisione del lavoro, c’è poca differenza nel modo di pensare, e si ha una solidarietà di gruppo di tipo meccanica, cioè un individuo può essere facilmente sostituito. Nelle società complesse, tipo la nostra, caratterizzate dalla industrializzazione (mito morto da un bel po’ di tempo, infatti si vedono gli effetti oggi con la crescente diosoccupazione) c’ è una maggiore divisione del lavoro, cioè si ha la parcellizzazione del lavoro, e si è quindi anche più aperti alle differenze (tra individui), ma si innescano anche meccanismi di riconoscimento dell’ importanza del proprio ruolo. Il risultato è che si ha una maggiore conflittualità tra gli individui. Quindi è vero, con la differenziazione del lavoro (e direi in generale) si ha un evoluzione della società; ma nasce il problema di come mantenere insieme questo organismo, come risolvere il problema della coesione sociale e dell’ interesse personale. Ed è qui mi piace introdurre uno dei concetti, a mio avviso, chiave di Durkaime quello della solidarietà. Senza solidarietà non c’è società. Il concetto di solidarietà è importante perché consente di riconciliare l’ individuale con il collettivo, reitegrando i termini libertà e eguaglianza.
    Ho riportato (spero in maniera comprensibile) il pensiero di Durkaime perchè, come nel capitolo da me scelto, anche lui afferma che è la scuola che deve organizzare metodicamente come infodere la coesione sociale nel rispetto delle differenze. Cioè, scuola e università sempre più dovranno formalizzare e connettere differenze, al fine di aiutare l’ individuo a elaborare mappe concettuali ampie e flessibili, a legare le proprie molteplici identità con quelle, diverse, che incontrerà nella sua avventura esistenziale.
    Quest’ ultimo concetto ci ripora al muliculturalismo e alla globalizzazione che attraversano con tutta la loro complessità e problematicità servizi sociali e istituzionali ma anche i rapporti relazionali. Quello che mi viene da dire è che lo slittamento dal locale al globale sta mettendo in discussione, in primis, i sistemi istituzionali di tipo statale, e allo stesso tempo si sta avendo una frammentazione del tessuto sociale soprattutto riguardo ai sistemi di appartenenza e riconoscimento.
    Nel capitolo scelto si parla: di globalizzazione economica che si fonda sulla libertà del modello di mercato neoliberale di espandersi senza limiti di spazio, e aggiungiamo, di etica.
    A questo riguardo vorrei dire che forse è giunto il momento che ci sia un maggiore controllo da parte del potere legittimato per le società finanziarie, per le multinazionali, e per le grandi imprese in generale. In secondo luogo la vita economica non deve essere un incontro di libertà reali o irreali che sfruttano pochi, e non deve essere neanche una lotta selvaggia dove a guadagnare siano sempre in pochi, e quando questi perdono, come avviene oggi, dimenticano le leggi del mercato e chiedono aiuti allo Stato. In terzo luogo credo che la crisi economica globale debba essere risolta nello Stato. Perché è lo Stato che deve creare equilibri tra i fini generali e gli interessi particolari dei cittadini. La globalizzazione ha portato alle estreme conseguenze la tendenza colonizzatrice della cultura occidentale, incorporando e distruggendo la diversità. Diffondendo in tutto il mondo un pensiero unico, nell’ economia come nella politica. Gli interventi dello Stato devono mirare non al fatto che un “sistema funzioni” ma che ci sia un equa distribuzione delle risorse.
    Riprendendo dal capitolo. Per questo motivo riteniamo che sia un impotante obiettivo formativo aiutare i soggetti e le comunità a elaborare gli strumenti culturali, le concettualizzazioni, le narrazioni per comprendere il senso unitario di quando sta avvenendo nel mondo. A questo fine è necessario fondare una Pedagogia che faccia della differenza un valore epistemico di sicuro riferimento, che sappia contrastare le propensioni tecnocratiche e iperspecialistiche in atto .
    In ultima battuta c’è bisogno di differenza perché c’ è bisogno di democrazia. Ma direi anche di eguaglianza in quanto paradossalmente oggi per realizzare l’ eguaglianza bisogna valorizzare le differenze.

    Le note non capisco perchè non compaiono, comunque ci sono dei riferimenti al testo e quindi ripoto le pag. da dove sono stati presi.

    Gramigna. A., Semantica della differenza. La relazione formativa nell’ alterità, Aracne, Roma, 2005, pag 24.
    ivi pag. 30.
    ivi pag. 35.
    ivi pag. 37.

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    Messaggio  rossanafruttaldo Mar Feb 21, 2012 7:23 pm

    BEN-ESSERE DISABILI, CAPITOLO II
    GRUPPO: Barone Ida, Fruttaldo Rossana
    L’ ICF è stato approvato nel 2001 da 191 paesi ed è entrato a far parte dell’ OMS. L’obiettivo principale dell’ ICF è quello di offrire un linguaggio comune e una struttura di riferimento per la descrizione sia delle disabilità che del funzionamento umano.
    Mentre l’ ICD-11 fornisce notizie relative alla mortalità, l’ ICF fornisce informazioni legate all’esperienza di salute per questo l’OMS ci invita ad utilizzarli insieme. Questo avviene perché non sempre le malattie portano alla morte come ad esempio il diabete o condizioni psichiatriche. Sarebbe molto importante, anche secondo noi, valutare quella che è la qualità della vita dell’individuo con disabilità;il sintomo, così come la diagnosi, da soli non forniscono un’immagine completa ed accurata di come una malattia possa influenzare la vita di una persona. Questa è stata la necessità dell’ ICIDH, però esso era troppo allineato con la malattia, infatti, venne sentito come una classificazione per le persone con disabilità piuttosto che una classificazione del funzionamento umano per descrivere problemi nel funzionamento. Grazie all’ ICF abbiamo una visione completa della salute, una visione multidimensionale che si fonda sul modello biopsicosociale usato nel contesto sanitario. Tale prospettiva multidimensionale della salute può essere usata come una guida per promuovere una migliore comprensione dei vari servizi e interventi tra le organizzazioni.
    Grazie ad una ricerca citata da PubMed sappiamo che nel periodo 2001-2007 sono stati pubblicati più di 400 articoli che si riferiscono all’ICF.
    Tra gli articoli che discutono sul significato dell’ICF abbiamo il “Disability and Rehabilitation” sul quale DeKlejin e de Vrankrijker hanno fornito una rassegna sulle origini di quest’ultimo, poi Stucki et al. hanno fornito una discussione generale del potenziale dell’ICF concludendo che il nuovo linguaggio usato in esso rappresenti un confine per la riabilitazione. Gli attuali sviluppi suggeriscono, ancora, che la comunità del disabile supporta la contestualizzazione della disabilità nella più recente visione dell’ICF:
    • Hurst ha messo in evidenza come può cambiare il modo di considerare la disabilità prima e dopo la formulazione dell’ICIDH;
    • Simeonsson et al. affermano che uno degli obiettivi principali dello sviluppo dell’ ICF è stato quello di produrre una tassonomia che documentasse le manifestazioni delle condizioni di salute che risultavano da interazioni complesse delle persone con l’ambiente.
    Quindi perchè l’ICF possa essere utile è necessario che la classificazione sia chiara nei confronti dei fenomeni che classifica con definizioni distinte e misurabili di ciascuna dimensione.
    Il modello ICF è diviso in due parti : la prima considera il funzionamento e la disabilità, la seconda parte comprende i fattori contestuali che includono sia quelli ambientali che personali. Esso si basa su tre principi:
     Applicazione universale
     Approccio interattivo
     Approccio integrativo.
    Nonostante numerosi autori abbiano dichiarato che l’ ICF apra nuove strade, altri hanno espresso delle preoccupazioni, ad esempio JELSMA ha messo in evidenza che gli obiettivi degli studi condotti variavano l’uno dall’altro, altri autori, invece, hanno messo in evidenza le difficoltà nel codificare la dimensione del tempo, altri ancora hanno manifestato la difficoltà nell’uso dei qualificatori considerandola la parte più difficile da comprendere da coloro che vengono formati per l’utilizzo dell’ ICF.
    Esiste, però, ancora poco consenso riguardo alla distinzione tra “attività e partecipazione”: l’attività è correlata al grado di menomazione, mentre la partecipazione è correlata alla qualità percepita di vita. Esiste un forte dibattito riguardo a questi due domini, esso è fondamentale perché la partecipazione è la dimensione che potrebbe essere più valutata per le persone con disabilità, le loro famiglie e la società. Durante il processo di revisione dell’ ICF l’ Australian Collaborating Center ha insistito perché si introducesse il qualificatore “soddisfazione”per la dimensione partecipazione, poiché senza la valutazione della soddisfazione, quella della partecipazione solo come performance perderebbe alcuni suoi aspetti importanti e quindi potrebbe non significare nulla.
    Esistono, poi, dubbi anche sull’uso dei qualificatori capacità e performance. Nell’ICF il qualificatore performance descrive ciò che un individuo fa nel suo ambiente attuale, invece il qualificatore capacità descrive l’abilità di un individuo di eseguire un compito o un’azione in un’ambiente standardizzato.
    Possiamo concludere affermando che nonostante l’ICF venga utilizzato ampiamente e viene riconosciuta la sua utilità vi sono alcuni autori che sottolineano delle carenze e che, quindi, esso necessita di ulteriori revisioni ed aggiornamenti.
    L' ICF sta penetrando nelle pratiche di diagnosi condotte dalle AA.SS.LL., che sulla base di esso elaborano la Diagnosi Funzionale.E' dunque opportuno che il personale scolastico coinvolto nel processo di integrazione sia a conoscenza del modello in questione e che si diffonda sempre più un approccio culturale all'integrazione che tenga conto del nuovo orientamento volto a considerare la disabilità interconnessa ai fattori contestuali.


    Ultima modifica di rossanafruttaldo il Lun Feb 27, 2012 2:26 pm - modificato 1 volta.
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Rassegna dell'argomento

    Messaggio  idabarone Mar Feb 21, 2012 7:27 pm

    BEN-ESSERE DISABILI, CAPITOLO II
    GRUPPO: Barone Ida, Fruttaldo Rossana
    L’ ICF è stato approvato nel 2001 da 191 paesi ed è entrato a far parte dell’ OMS. L’obiettivo principale dell’ ICF è quello di offrire un linguaggio comune e una struttura di riferimento per la descrizione sia delle disabilità che del funzionamento umano.
    Mentre l’ ICD-11 fornisce notizie relative alla mortalità, l’ ICF fornisce informazioni legate all’esperienza di salute per questo l’OMS ci invita ad utilizzarli insieme. Questo avviene perché non sempre le malattie portano alla morte come ad esempio il diabete o condizioni psichiatriche. Sarebbe molto importante, anche secondo noi, valutare quella che è la qualità della vita dell’individuo con disabilità;il sintomo, così come la diagnosi, da soli non forniscono un’immagine completa ed accurata di come una malattia possa influenzare la vita di una persona. Questa è stata la necessità dell’ ICIDH, però esso era troppo allineato con la malattia, infatti, venne sentito come una classificazione per le persone con disabilità piuttosto che una classificazione del funzionamento umano per descrivere problemi nel funzionamento. Grazie all’ ICF abbiamo una visione completa della salute, una visione multidimensionale che si fonda sul modello biopsicosociale usato nel contesto sanitario. Tale prospettiva multidimensionale della salute può essere usata come una guida per promuovere una migliore comprensione dei vari servizi e interventi tra le organizzazioni.
    Grazie ad una ricerca citata da PubMed sappiamo che nel periodo 2001-2007 sono stati pubblicati più di 400 articoli che si riferiscono all’ICF.
    Tra gli articoli che discutono sul significato dell’ICF abbiamo il “Disability and Rehabilitation” sul quale DeKlejin e de Vrankrijker hanno fornito una rassegna sulle origini di quest’ultimo, poi Stucki et al. hanno fornito una discussione generale del potenziale dell’ICF concludendo che il nuovo linguaggio usato in esso rappresenti un confine per la riabilitazione. Gli attuali sviluppi suggeriscono, ancora, che la comunità del disabile supporta la contestualizzazione della disabilità nella più recente visione dell’ICF:
    • Hurst ha messo in evidenza come può cambiare il modo di considerare la disabilità prima e dopo la formulazione dell’ICIDH;
    • Simeonsson et al. affermano che uno degli obiettivi principali dello sviluppo dell’ ICF è stato quello di produrre una tassonomia che documentasse le manifestazioni delle condizioni di salute che risultavano da interazioni complesse delle persone con l’ambiente.
    Quindi perchè l’ICF possa essere utile è necessario che la classificazione sia chiara nei confronti dei fenomeni che classifica con definizioni distinte e misurabili di ciascuna dimensione.
    Il modello ICF è diviso in due parti : la prima considera il funzionamento e la disabilità, la seconda parte comprende i fattori contestuali che includono sia quelli ambientali che personali. Esso si basa su tre principi:
     Applicazione universale
     Approccio interattivo
     Approccio integrativo.
    Nonostante numerosi autori abbiano dichiarato che l’ ICF apra nuove strade, altri hanno espresso delle preoccupazioni, ad esempio JELSMA ha messo in evidenza che gli obiettivi degli studi condotti variavano l’uno dall’altro, altri autori, invece, hanno messo in evidenza le difficoltà nel codificare la dimensione del tempo, altri ancora hanno manifestato la difficoltà nell’uso dei qualificatori considerandola la parte più difficile da comprendere da coloro che vengono formati per l’utilizzo dell’ ICF.
    Esiste, però, ancora poco consenso riguardo alla distinzione tra “attività e partecipazione”: l’attività è correlata al grado di menomazione, mentre la partecipazione è correlata alla qualità percepita di vita. Esiste un forte dibattito riguardo a questi due domini, esso è fondamentale perché la partecipazione è la dimensione che potrebbe essere più valutata per le persone con disabilità, le loro famiglie e la società. Durante il processo di revisione dell’ ICF l’ Australian Collaborating Center ha insistito perché si introducesse il qualificatore “soddisfazione”per la dimensione partecipazione, poiché senza la valutazione della soddisfazione, quella della partecipazione solo come performance perderebbe alcuni suoi aspetti importanti e quindi potrebbe non significare nulla.
    Esistono, poi, dubbi anche sull’uso dei qualificatori capacità e performance. Nell’ICF il qualificatore performance descrive ciò che un individuo fa nel suo ambiente attuale, invece il qualificatore capacità descrive l’abilità di un individuo di eseguire un compito o un’azione in un’ambiente standardizzato.
    Possiamo concludere affermando che nonostante l’ICF venga utilizzato ampiamente e viene riconosciuta la sua utilità vi sono alcuni autori che sottolineano delle carenze e che, quindi, esso necessita di ulteriori revisioni ed aggiornamenti.
    L' ICF sta penetrando nelle pratiche di diagnosi condotte dalle AA.SS.LL., che sulla base di esso elaborano la Diagnosi Funzionale.E' dunque opportuno che il personale scolastico coinvolto nel processo di integrazione sia a conoscenza del modello in questione e che si diffonda sempre più un approccio culturale all'integrazione che tenga conto del nuovo orientamento volto a considerare la disabilità interconnessa ai fattori contestuali.



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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Daniela Rocchetti Gio Feb 23, 2012 4:19 pm

    Gruppo formato: Cascone Maria Assunta, Guida Antonella, Rocchetti Daniela, Traettino Angela e Zobel Marika.

    Relazione del capitolo ben-essere disabili.

    “Quando le persone parlano di felicità, generalmente intendono uno stato che comporta sensazioni positive oppure giudizi positivi sulle sensazioni” (Nettle 2007).
    Secondo Goldwurn il ben-essere soggettivo è l’essenza della qualità della vita, quest’ultima riguarda la soddisfazione per i diversi aspetti della vita e il ben-essere generale. Essa comprende il ben-essere emozionale, relazioni interpersonali e autodeterminazione. Il ben-essere emozionale sembra essere quello più vicino alla felicità.
    Molte culture distinguono la felicità tra qualcosa di estremamente immediato, come la gioia o il piacere, e qualcosa di più durevole e significativo, come la soddisfazione o l’appagamento.
    “Se le persone passano molto del loro tempo a riflettere sulla nozione di ben-essere e di felicità, allora questo è un buon motivo per studiarle” (Nettle 2007). Infatti, entrambi i concetti sono parte integrante della storia dell’uomo sin dalla nascita, poiché tutti mirano al raggiungimento degli stessi.
    Entrambi i termini a volte vengono usati senza farne una distinzione ma, per quanto riguarda il ben-essere, questi ha una doppia componente: cognitiva, che valuta la soddisfazione di vita; affettiva, che si divide, a sua volta, nella presenza dell’affetto positivo e nell’assenza dell’affetto negativo. Il ben-essere rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni in continuo cambiamento e riadattamento. Tali concetti devono essere presi in considerazione non solo per le persone “normali” ma anche per coloro che presentano delle disabilità.
    Quando parliamo di ben-essere e di felicità intendiamo il raggiungimento di un obiettivo prefissato. Ciò non si può ottenere basandosi solo sul singolo individuo, ma occorre prendere in considerazione l’empowerment sociale in quanto l’individuo nasce con un corredo genetico predisposto all’acquisizione di informazioni date dall’ambiente esterno. Il ben-essere ha conseguenze positive sulle emozioni e aiuta a superare le sfide che la vita pone. Ogni essere umano nasce con qualcosa di nuovo e di mai esistito prima poiché ha una propria originalità e unicità, si costruisce e vive, a suo modo, il ben-essere. Quest’ultimo dipende sia dalle componenti fisiche e sia dagli stili di vita e dai contesti sociali.
    Allora ben-essere e felicità sono la stessa cosa per tutti? In riferimento alle persone disabili il ben-essere deve essere considerato come una dimensione determinata dalla capacità di autonomia e di scelta, per vivere al meglio la propria vita. Attualmente, nella nostra società, non è facile per queste persone essere accettate, hanno difficoltà a raggiungere il ben-essere interiore, la felicità e l’autonomia. Con quest’ultima ci riferiamo, in modo particolare, alle barriere architettoniche presenti nelle nostre città che ostacolano la possibilità di vivere la propria vita senza dipendere da altre persone. Per riuscire a rendere queste persone più indipendenti sarebbe opportuno avviare un percorso di cooperazione tra le diverse istituzioni sociali, le quali dovrebbero progettare e soprattutto realizzare strutture, iniziative e progetti per guidare il soggetto a ottenere un ben-essere generale. Anche Canevaro afferma che il ben-essere di un individuo è legato al capitale sociale, ossia l’insieme delle capacità che l’individuo possiede di organizzarsi e di adattarsi grazie a elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. La vita delle persone disabili è stata “facilitata” grazie alla legge-quadro 104/92 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Essa, infatti, offre l’opportunità, ai diversamente abili, di godere degli stessi diritti e degli stessi servizi delle persone normodotate. Tale legge ha l’obiettivo di superare tutte le barriere che ostacolano le persone con disabilità, cercando, il più possibile, di “rendere normale” la loro vita.
    Negli ultimi decenni i ricercatori si sono interessati alle diverse forme del ben-essere, infatti numerosi sono gli studi rivolti al vivere bene e meglio per se stessi. Quindi, raggiungere il ben-essere e la felicità non è più solo un’aspirazione del singolo, ma anche degli studiosi. Ricerche emergenti per quanto riguarda il ben-essere dei disabili sono state fatte sulle famiglie, che al loro interno hanno un figlio con handicap. Tali ricerche hanno paragonato la figura materna a una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si rinnova a ogni fase dello sviluppo del bambino. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Secondo Dykeus le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins, su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato. In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità e di cura da parte dell’intera famiglia nei confronti del figlio e/o fratello disabile. L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. Molto spesso i genitori di bambini con disabilità trascorrono periodi di stress prolungati, ciò influisce molto sullo sviluppo dei figli. In conclusione, la presenza di un disabile all’interno di una famiglia comporta una situazione di sofferenza generale.
    Al termine della nostra riflessione, siamo arrivate alla conclusione che la disabilità non è della persona che malauguratamente la possiede, ma è di chi la guarda. Questi ultimi, rappresentati dalla società, non favoriscono la piena integrazione di queste persone, considerate “svantaggiate”.
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    Messaggio  antonellaguida Gio Feb 23, 2012 4:25 pm

    Gruppo formato: Cascone Maria Assunta, Guida Antonella, Rocchetti Daniela, Traettino Angela e Zobel Marika.

    Relazione del capitolo Ben-essere disabili.

    “Quando le persone parlano di felicità, generalmente intendono uno stato che comporta sensazioni positive oppure giudizi positivi sulle sensazioni” (Nettle 2007).
    Secondo Goldwurn il ben-essere soggettivo è l’essenza della qualità della vita, quest’ultima riguarda la soddisfazione per i diversi aspetti della vita e il ben-essere generale. Essa comprende il ben-essere emozionale, relazioni interpersonali e autodeterminazione. Il ben-essere emozionale sembra essere quello più vicino alla felicità.
    Molte culture distinguono la felicità tra qualcosa di estremamente immediato, come la gioia o il piacere, e qualcosa di più durevole e significativo, come la soddisfazione o l’appagamento.
    “Se le persone passano molto del loro tempo a riflettere sulla nozione di ben-essere e di felicità, allora questo è un buon motivo per studiarle” (Nettle 2007). Infatti, entrambi i concetti sono parte integrante della storia dell’uomo sin dalla nascita, poiché tutti mirano al raggiungimento degli stessi.
    Entrambi i termini a volte vengono usati senza farne una distinzione ma, per quanto riguarda il ben-essere, questi ha una doppia componente: cognitiva, che valuta la soddisfazione di vita; affettiva, che si divide, a sua volta, nella presenza dell’affetto positivo e nell’assenza dell’affetto negativo. Il ben-essere rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni in continuo cambiamento e riadattamento. Tali concetti devono essere presi in considerazione non solo per le persone “normali” ma anche per coloro che presentano delle disabilità.
    Quando parliamo di ben-essere e di felicità intendiamo il raggiungimento di un obiettivo prefissato. Ciò non si può ottenere basandosi solo sul singolo individuo, ma occorre prendere in considerazione l’empowerment sociale in quanto l’individuo nasce con un corredo genetico predisposto all’acquisizione di informazioni date dall’ambiente esterno. Il ben-essere ha conseguenze positive sulle emozioni e aiuta a superare le sfide che la vita pone. Ogni essere umano nasce con qualcosa di nuovo e di mai esistito prima poiché ha una propria originalità e unicità, si costruisce e vive, a suo modo, il ben-essere. Quest’ultimo dipende sia dalle componenti fisiche e sia dagli stili di vita e dai contesti sociali.
    Allora ben-essere e felicità sono la stessa cosa per tutti? In riferimento alle persone disabili il ben-essere deve essere considerato come una dimensione determinata dalla capacità di autonomia e di scelta, per vivere al meglio la propria vita. Attualmente, nella nostra società, non è facile per queste persone essere accettate, hanno difficoltà a raggiungere il ben-essere interiore, la felicità e l’autonomia. Con quest’ultima ci riferiamo, in modo particolare, alle barriere architettoniche presenti nelle nostre città che ostacolano la possibilità di vivere la propria vita senza dipendere da altre persone. Per riuscire a rendere queste persone più indipendenti sarebbe opportuno avviare un percorso di cooperazione tra le diverse istituzioni sociali, le quali dovrebbero progettare e soprattutto realizzare strutture, iniziative e progetti per guidare il soggetto a ottenere un ben-essere generale. Anche Canevaro afferma che il ben-essere di un individuo è legato al capitale sociale, ossia l’insieme delle capacità che l’individuo possiede di organizzarsi e di adattarsi grazie a elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. La vita delle persone disabili è stata “facilitata” grazie alla legge-quadro 104/92 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Essa, infatti, offre l’opportunità, ai diversamente abili, di godere degli stessi diritti e degli stessi servizi delle persone normodotate. Tale legge ha l’obiettivo di superare tutte le barriere che ostacolano le persone con disabilità, cercando, il più possibile, di “rendere normale” la loro vita.
    Negli ultimi decenni i ricercatori si sono interessati alle diverse forme del ben-essere, infatti numerosi sono gli studi rivolti al vivere bene e meglio per se stessi. Quindi, raggiungere il ben-essere e la felicità non è più solo un’aspirazione del singolo, ma anche degli studiosi. Ricerche emergenti per quanto riguarda il ben-essere dei disabili sono state fatte sulle famiglie, che al loro interno hanno un figlio con handicap. Tali ricerche hanno paragonato la figura materna a una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si rinnova a ogni fase dello sviluppo del bambino. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Secondo Dykeus le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins, su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato. In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità e di cura da parte dell’intera famiglia nei confronti del figlio e/o fratello disabile. L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. Molto spesso i genitori di bambini con disabilità trascorrono periodi di stress prolungati, ciò influisce molto sullo sviluppo dei figli. In conclusione, la presenza di un disabile all’interno di una famiglia comporta una situazione di sofferenza generale.
    Al termine della nostra riflessione, siamo arrivate alla conclusione che la disabilità non è della persona che malauguratamente la possiede, ma è di chi la guarda. Questi ultimi, rappresentati dalla società, non favoriscono la piena integrazione di queste persone, considerate “svantaggiate”.
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  angelatraettino Gio Feb 23, 2012 4:28 pm

    Gruppo formato: Cascone Maria Assunta, Guida Antonella, Rocchetti Daniela, Traettino Angela e Zobel Marika.

    Relazione del capitolo Ben-essere disabili

    “Quando le persone parlano di felicità, generalmente intendono uno stato che comporta sensazioni positive oppure giudizi positivi sulle sensazioni” (Nettle 2007).
    Secondo Goldwurn il ben-essere soggettivo è l’essenza della qualità della vita, quest’ultima riguarda la soddisfazione per i diversi aspetti della vita e il ben-essere generale. Essa comprende il ben-essere emozionale, relazioni interpersonali e autodeterminazione. Il ben-essere emozionale sembra essere quello più vicino alla felicità.
    Molte culture distinguono la felicità tra qualcosa di estremamente immediato, come la gioia o il piacere, e qualcosa di più durevole e significativo, come la soddisfazione o l’appagamento.
    “Se le persone passano molto del loro tempo a riflettere sulla nozione di ben-essere e di felicità, allora questo è un buon motivo per studiarle” (Nettle 2007). Infatti, entrambi i concetti sono parte integrante della storia dell’uomo sin dalla nascita, poiché tutti mirano al raggiungimento degli stessi.
    Entrambi i termini a volte vengono usati senza farne una distinzione ma, per quanto riguarda il ben-essere, questi ha una doppia componente: cognitiva, che valuta la soddisfazione di vita; affettiva, che si divide, a sua volta, nella presenza dell’affetto positivo e nell’assenza dell’affetto negativo. Il ben-essere rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni in continuo cambiamento e riadattamento. Tali concetti devono essere presi in considerazione non solo per le persone “normali” ma anche per coloro che presentano delle disabilità.
    Quando parliamo di ben-essere e di felicità intendiamo il raggiungimento di un obiettivo prefissato. Ciò non si può ottenere basandosi solo sul singolo individuo, ma occorre prendere in considerazione l’empowerment sociale in quanto l’individuo nasce con un corredo genetico predisposto all’acquisizione di informazioni date dall’ambiente esterno. Il ben-essere ha conseguenze positive sulle emozioni e aiuta a superare le sfide che la vita pone. Ogni essere umano nasce con qualcosa di nuovo e di mai esistito prima poiché ha una propria originalità e unicità, si costruisce e vive, a suo modo, il ben-essere. Quest’ultimo dipende sia dalle componenti fisiche e sia dagli stili di vita e dai contesti sociali.
    Allora ben-essere e felicità sono la stessa cosa per tutti? In riferimento alle persone disabili il ben-essere deve essere considerato come una dimensione determinata dalla capacità di autonomia e di scelta, per vivere al meglio la propria vita. Attualmente, nella nostra società, non è facile per queste persone essere accettate, hanno difficoltà a raggiungere il ben-essere interiore, la felicità e l’autonomia. Con quest’ultima ci riferiamo, in modo particolare, alle barriere architettoniche presenti nelle nostre città che ostacolano la possibilità di vivere la propria vita senza dipendere da altre persone. Per riuscire a rendere queste persone più indipendenti sarebbe opportuno avviare un percorso di cooperazione tra le diverse istituzioni sociali, le quali dovrebbero progettare e soprattutto realizzare strutture, iniziative e progetti per guidare il soggetto a ottenere un ben-essere generale. Anche Canevaro afferma che il ben-essere di un individuo è legato al capitale sociale, ossia l’insieme delle capacità che l’individuo possiede di organizzarsi e di adattarsi grazie a elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. La vita delle persone disabili è stata “facilitata” grazie alla legge-quadro 104/92 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Essa, infatti, offre l’opportunità, ai diversamente abili, di godere degli stessi diritti e degli stessi servizi delle persone normodotate. Tale legge ha l’obiettivo di superare tutte le barriere che ostacolano le persone con disabilità, cercando, il più possibile, di “rendere normale” la loro vita.
    Negli ultimi decenni i ricercatori si sono interessati alle diverse forme del ben-essere, infatti numerosi sono gli studi rivolti al vivere bene e meglio per se stessi. Quindi, raggiungere il ben-essere e la felicità non è più solo un’aspirazione del singolo, ma anche degli studiosi. Ricerche emergenti per quanto riguarda il ben-essere dei disabili sono state fatte sulle famiglie, che al loro interno hanno un figlio con handicap. Tali ricerche hanno paragonato la figura materna a una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si rinnova a ogni fase dello sviluppo del bambino. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Secondo Dykeus le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins, su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato. In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità e di cura da parte dell’intera famiglia nei confronti del figlio e/o fratello disabile. L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. Molto spesso i genitori di bambini con disabilità trascorrono periodi di stress prolungati, ciò influisce molto sullo sviluppo dei figli. In conclusione, la presenza di un disabile all’interno di una famiglia comporta una situazione di sofferenza generale.
    Al termine della nostra riflessione, siamo arrivate alla conclusione che la disabilità non è della persona che malauguratamente la possiede, ma è di chi la guarda. Questi ultimi, rappresentati dalla società, non favoriscono la piena integrazione di queste persone, considerate “svantaggiate”.
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    Messaggio  Montella Tonia Ven Feb 24, 2012 1:07 pm

    BEN-ESSERE DISABILI, CAPITOLO II
    Nel 2001 l'OMS ha introdotto uno strumento di classificazione in merito alle persone normodotate e diversamente abili innovativo e multidisciplinare, chiamato ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute). Prima dell'ICF, l'OMS ha eleborato diversi strumenti di classificazione tra le quali ricordiamo l'ICD; tuttavia questo tipo di classificazione poneva l'attenzione soltanto sulle cause delle patologie, così l'OMS decise di introdurre la classificazione ICIDH. L'ICIDH non coglie più le cause della patologia, ma pone l'attenzione sull'ambiente, sull' influenza che essa esercita sullo stato di salute delle popolazioni. Con l'ICIDH non si parte più dal concetto di malattia,inteso come menomazione,ma dal concetto di salute,inteso come benessere fisico,mentale,relazionale e sociale che riguarda l'individuo, la sua globalità e l'interazione con l'ambiente. La nuova classificazione ICF punta a descrivere la persona e il suo stato di salute in rapporto alla società, alla famiglia e al lavoro,in modo da poter comprendere quali sono le difficoltà che rendono il soggetto portatore di disabilità in questi contesti.A differenza delle classificazioni passate ICD e ICIDH, dove veniva dato ampio spazio alla descrizione delle malattie dell'individuo, ricorrendo a termini quali malattia,menomazione ed handicap (usati prevalentemente in modo negativo), nell'ICF si fa riferimento a termini che analizzano la salute dell'individuo in chiave positiva (funzionamento e salute).Il nuovo approccio permette la correlazione fra stato di salute e ambiente arrivando così alla definizione di disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. L’analisi delle varie dimensioni esistenziali dell’individuo porta a evidenziare non solo come le persone convivono con la loro patologia, ma anche cosa è possibile fare per migliorare la qualità della loro vita.
    Il concetto di disabilità introduce ulteriori elementi che evidenziano la valenza innovativa della classificazione:
    - universalismo;
    - approccio integrato;
    - modello multidimensionale del funzionamento e della disabilità.
    UNIVERSALE perchè applicabile a qualsiasi persona sia normodotata che diversamente abile.
    L'APPROCCIO INTEGRATO vuole evidenziare non i deficit e gli handicap che rendono precarie le condizioni di vita delle persone, ma vuole essere un concetto inserito in un continuum multidimensionale. Ognuno di noi può trovarsi in un contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità.
    Accettare la filosofia dell'ICF vuol dire considerare la disabilità un problema che non riguarda i singoli cittadini che ne sono colpiti e le loro famiglie ma, coinvolge tutta la comunità e,innanzitutto, le istituzioni.
    MONTELLA TONIA
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    Messaggio  Marika Zobel Ven Feb 24, 2012 3:25 pm

    Gruppo formato: Cascone Maria Assunta, Guida Antonella, Rocchetti Daniela, Traettino Angela e Zobel Marika.

    Relazione del capitolo Ben-essere disabili.

    “Quando le persone parlano di felicità, generalmente intendono uno stato che comporta sensazioni positive oppure giudizi positivi sulle sensazioni” (Nettle 2007).
    Secondo Goldwurn il ben-essere soggettivo è l’essenza della qualità della vita, quest’ultima riguarda la soddisfazione per i diversi aspetti della vita e il ben-essere generale. Essa comprende il ben-essere emozionale, relazioni interpersonali e autodeterminazione. Il ben-essere emozionale sembra essere quello più vicino alla felicità.
    Molte culture distinguono la felicità tra qualcosa di estremamente immediato, come la gioia o il piacere, e qualcosa di più durevole e significativo, come la soddisfazione o l’appagamento.
    “Se le persone passano molto del loro tempo a riflettere sulla nozione di ben-essere e di felicità, allora questo è un buon motivo per studiarle” (Nettle 2007). Infatti, entrambi i concetti sono parte integrante della storia dell’uomo sin dalla nascita, poiché tutti mirano al raggiungimento degli stessi.
    Entrambi i termini a volte vengono usati senza farne una distinzione ma, per quanto riguarda il ben-essere, questi ha una doppia componente: cognitiva, che valuta la soddisfazione di vita; affettiva, che si divide, a sua volta, nella presenza dell’affetto positivo e nell’assenza dell’affetto negativo. Il ben-essere rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni in continuo cambiamento e riadattamento. Tali concetti devono essere presi in considerazione non solo per le persone “normali” ma anche per coloro che presentano delle disabilità.
    Quando parliamo di ben-essere e di felicità intendiamo il raggiungimento di un obiettivo prefissato. Ciò non si può ottenere basandosi solo sul singolo individuo, ma occorre prendere in considerazione l’empowerment sociale in quanto l’individuo nasce con un corredo genetico predisposto all’acquisizione di informazioni date dall’ambiente esterno. Il ben-essere ha conseguenze positive sulle emozioni e aiuta a superare le sfide che la vita pone. Ogni essere umano nasce con qualcosa di nuovo e di mai esistito prima poiché ha una propria originalità e unicità, si costruisce e vive, a suo modo, il ben-essere. Quest’ultimo dipende sia dalle componenti fisiche e sia dagli stili di vita e dai contesti sociali.
    Allora ben-essere e felicità sono la stessa cosa per tutti? In riferimento alle persone disabili il ben-essere deve essere considerato come una dimensione determinata dalla capacità di autonomia e di scelta, per vivere al meglio la propria vita. Attualmente, nella nostra società, non è facile per queste persone essere accettate, hanno difficoltà a raggiungere il ben-essere interiore, la felicità e l’autonomia. Con quest’ultima ci riferiamo, in modo particolare, alle barriere architettoniche presenti nelle nostre città che ostacolano la possibilità di vivere la propria vita senza dipendere da altre persone. Per riuscire a rendere queste persone più indipendenti sarebbe opportuno avviare un percorso di cooperazione tra le diverse istituzioni sociali, le quali dovrebbero progettare e soprattutto realizzare strutture, iniziative e progetti per guidare il soggetto a ottenere un ben-essere generale. Anche Canevaro afferma che il ben-essere di un individuo è legato al capitale sociale, ossia l’insieme delle capacità che l’individuo possiede di organizzarsi e di adattarsi grazie a elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, cioè con i contesti. La vita delle persone disabili è stata “facilitata” grazie alla legge-quadro 104/92 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Essa, infatti, offre l’opportunità, ai diversamente abili, di godere degli stessi diritti e degli stessi servizi delle persone normodotate. Tale legge ha l’obiettivo di superare tutte le barriere che ostacolano le persone con disabilità, cercando, il più possibile, di “rendere normale” la loro vita.
    Negli ultimi decenni i ricercatori si sono interessati alle diverse forme del ben-essere, infatti numerosi sono gli studi rivolti al vivere bene e meglio per se stessi. Quindi, raggiungere il ben-essere e la felicità non è più solo un’aspirazione del singolo, ma anche degli studiosi. Ricerche emergenti per quanto riguarda il ben-essere dei disabili sono state fatte sulle famiglie, che al loro interno hanno un figlio con handicap. Tali ricerche hanno paragonato la figura materna a una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si rinnova a ogni fase dello sviluppo del bambino. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Secondo Dykeus le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins, su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato. In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità e di cura da parte dell’intera famiglia nei confronti del figlio e/o fratello disabile. L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. Molto spesso i genitori di bambini con disabilità trascorrono periodi di stress prolungati, ciò influisce molto sullo sviluppo dei figli. In conclusione, la presenza di un disabile all’interno di una famiglia comporta una situazione di sofferenza generale.
    Al termine della nostra riflessione, siamo arrivate alla conclusione che la disabilità non è della persona che malauguratamente la possiede, ma è di chi la guarda. Questi ultimi, rappresentati dalla società, non favoriscono la piena integrazione di queste persone, considerate “svantaggiate”.
    Valentina Fiore
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 17 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Valentina Fiore Ven Feb 24, 2012 4:24 pm

    gruppo formato da: Mariangela Di Bennardo e Fiore Valentina

    Ben-essere Disabili, Capitolo quinto: Valutare Attività & Partecipazione

    Una premessa centrale dei passaggio dal modello medico al modello sociale di disabilità è l'importanza della partecipazione sociale della persona con disabilità infatti col modello medico il deficit veniva visto solo da un punto di vista organico mentre con quello sociale (modello bio-psicosociale) l'interazione della persona con l'ambiente è determinante…entra in gioco il fattore della partecipazione (passaggio dall’ICIDH all’ICF). Le scuole Costituiscono un ambiente primario per l'educazione e la socializzazione dei bambini e dei ragazzi..Finn elabora un l modello di abbandono scolastico (1989) considerando la mancanza di partecipazione nelle attività scolastiche come principale causa dell'abbandono scolastico. La par¬tecipazione conduce a una maggiore probabilità di esperienze di successo,condizione essenziale affinchè avvenga l'apprendimento.
    Affinché la piena partecipazione alla vita scolastica avvenga in soggetti disabili,c’è bisogno di una politica dell'inclusione che viene ostacolata o favorita dai fattori ambientali
    , la partecipazione per due individui con la stessa condizione sottostante di disabilità può essere facilitata o ristretta dalla natura e dall'accessibilità dell'ambiente.Come promuovere la partecipazione?Prima di tutto fornire un setting d’apprendimento quanto più accogliente possibile e favorire delle strategie d’inclusione puntando al gioco collettivo; il gioco può essere utilizzato anche come strumento formativo per raggiungere l’obiettivo finale dell’autonomia del disabile. La partecipazione deve essere soggetta anche ad una valutazione che inizia con un’osservazione diretta o self – report; questo solleva la questione di sviluppare questionari appropriati all'età, in termini di item e del metodo di risposta, tenendo conto soprattutto delle particolari menomazioni che il bambino potrebbe avere. A tal proposito è stata pensata una gamma di strumenti per misurare gli aspetti della disabilità nei bambini, alcune individuate per valutare l'impatto di specifiche condizioni e altre per catturare le dimensioni centrali tra varie condizioni; variano in termini di dell'età, contenuti, e formato di somministrazione. Il più efficace tra questi è il “Capability Approach” che descrive la capacità di una persona e le opportunità tipicamente of¬ferte dai fattori ambientali ;per i bambini disabili il set di capacità può essere ristretto a causa delle loro incapacità (menomazioni) o essere limitato dal loro ambiente fisico o sociale.Esso rappresenta la situazione concreta che il soggetto deve affrontare con le sue difficoltà fornendo un modello per graduare la misura della partecipazione e valutando se un bambino può portare a termine un'azione in una situazione di vita. Dal momento che la risposta varierà in seguito alle circostanze, le categorie di risposta probabilmente costituiranno una frequenza di ciò che il bambino ha l'opportunità di fare o non fare.
    A nostro avviso i servizi si dovrebbero impegnare a promuovere quanto più possibile la partecipazione e lo sviluppo delle capacità dando così ai bambini possibilità di scelta e auto¬nomia. Teoricamente sono molti i riferimenti a cui possiamo attingere ma nella realtà ci troviamo di fronte situazioni davvero problematiche a cui spesso è difficile cercare una giusta soluzione.


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