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Forum didattico del corso di Psicopedagogia dei linguaggi a.a.2011-12 a cura di F. Briganti Stanza di collaborazione del gruppo classe


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Francesca Fuscaldo Ven Feb 03, 2012 8:48 am

    Capitolo 7: "Educarsi al ben-essere"
    Gruppo: Francesca Fuscaldo, Ilaria Di Scala.




    Edgar Morin afferma: “bisogna insegnare a vivere”, parole che risuonano tempestive e pertinenti nella società in cui viviamo dove la maggior parte delle persone si lascia trascinare inerte nel fiume della vita, perdendo così il controllo del proprio tempo, del proprio spazio e dunque, della stessa vita. Oggi si parla molto, forse anche troppo, di ben-essere, inteso come condizione privilegiata di chi riesce a soddisfare ogni continuo, mutevole e crescente “bisogno”. Concezione quest’ultima, che esprime al meglio le politiche del consumismo che pervadono e dominano la società odierna. Attualmente chi vive nel ben-essere risulta una persona “vincente”, ma la stessa accezione di vincente è storpiata. Difatti per vincente si intende colui che reagisce in modo veritiero, chi è credibile, degno di fiducia, sensibile e non chi nell’ ottica della sopraffazione, erge la propria vittoria nella sconfitta altrui. Da quanto detto finora, si evince che per progettare ed attuare interventi formativi ed educativi efficaci per il raggiungimento di un autentico ben-essere occorre per prima cosa modificare la concezione stessa del valore ben-essere. La condizione elitaria, anelata dalle masse e perseguibile da pochi, va ora interpretata come una possibilità che tutti possono raggiungere mediante l’azione di un autentica educazione inclusiva. Alla base delle politiche e delle pratiche di un’educazione inclusiva, c’è il bene comune di tutti gli individui, l’accettazione delle diversità che vengono stimate come risorse e non più come limiti. Occorre dare ai soggetti gli strumenti, le abilità per uscire da questo stato di inoperosità e rassegnazione, far prender loro in mano le redini della loro esistenza, renderli padroni delle proprie idee, valori e pensieri, capaci di progettare la strada migliore per perseguire il raggiungimento del loro ben-essere. La stessa idea di funzionamento elaborata dall’ICF va intesa infatti nella sua dinamicità e non come qualcosa di statico e decontestualizzato. L’interesse anche qui si posa su ciò che potrà essere in grado di fare un individuo, apportando in modo consapevole e creativo, dei cambiamenti nella propria vita. Nel 1997 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha redatto una serie di “Life Skills” , ovvero di abilità necessarie per il raggiungimento del ben-essere. Le stesse abilità vengono riprese nel 2004 da Marzocchi, che elabora il nucleo fondamentale di queste, che è alla base delle iniziative per la promozione del ben-essere dei bambini e degli adolescenti:
    - DECISION MAKING (capacità di prendere decisioni): attivare consapevolmente ed intenzionalmente il processo decisionale valutando le diverse possibilità e conseguenze;
    - PROBLEM SOLVING (capacità di risolvere i problemi);
    - PENSIERO CREATIVO: agisce sinergicamente con le abilità precedenti;
    - PENSIERO CRITICO: analizzare e valutare le situazioni in maniera quanto più razionale ed oggettiva;
    - COMUNICAZIONE EFFICACE: riuscire ad esprimersi sia sul piano verbale che non verbale;
    - CAPACITA’ DI RELAZIONI INTERPERSONALI: riuscire ad instaurare relazioni durevoli e positive con gli altri;
    - AUTOCONSAPEVOLEZZA: il riconoscimento di sé, del proprio carattere, dei propri difetti e dei propri pregi, delle proprie idee e dei propri desideri;
    - EMPATIA: riuscire a immedesimarsi “nei panni” altrui, comprendendone i sentimenti, le emozioni gli stati d’animo;
    - GESTIONE DELLE EMOZIONI: riconoscere le proprie emozioni e quelle altrui;
    - GESTIONE DELLO STRESS: riuscire ad individuare le fonti di stress nella vita quotidiana ed agire per controllarle.
    Metodologie atte al raggiungimento e l’acquisizione delle abilità sopra citate, risultano essere quelle della partecipazione attiva che vede studenti e docenti coinvolti in un processo dinamico che include metodi come il “brainstorming”, “la discussione di gruppo”, e il “dibattito”. Un apprendimento attivo e partecipativo in gruppo è centrale per l’insegnamento delle abilità di vita. Come scrive nel suo saggio l’educatore F. Tesser: “il terreno su cui bisogna lavorare è l’esperienza. La maggior parte delle esperienze dei bambini e dei giovani, ma anche di molti adulti, oggi è la negazione stessa della possibilità dell’esperienza. Questo è il compito dell’educatore al ben-essere: rendere presente quello che c’è e permettere alle persone di riconoscerlo”

    lavoro preciso e coinvolgente
    non si intravede il punto di vista.la docente
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Ilaria Di Scala Ven Feb 03, 2012 8:51 am

    Capitolo 7: "Educarsi al ben-essere"
    Gruppo: Francesca Fuscaldo; Ilaria Di Scala

    Edgar Morin afferma: “bisogna insegnare a vivere”, parole che risuonano tempestive e pertinenti nella società in cui viviamo dove la maggior parte delle persone si lascia trascinare inerte nel fiume della vita, perdendo così il controllo del proprio tempo, del proprio spazio e dunque, della stessa vita. Oggi si parla molto, forse anche troppo, di ben-essere, inteso come condizione privilegiata di chi riesce a soddisfare ogni continuo, mutevole e crescente “bisogno”. Concezione quest’ultima, che esprime al meglio le politiche del consumismo che pervadono e dominano la società odierna. Attualmente chi vive nel ben-essere risulta una persona “vincente”, ma la stessa accezione di vincente è storpiata. Difatti per vincente si intende colui che reagisce in modo veritiero, chi è credibile, degno di fiducia, sensibile e non chi nell’ ottica della sopraffazione, erge la propria vittoria nella sconfitta altrui. Da quanto detto finora, si evince che per progettare ed attuare interventi formativi ed educativi efficaci per il raggiungimento di un autentico ben-essere occorre per prima cosa modificare la concezione stessa del valore ben-essere. La condizione elitaria, anelata dalle masse e perseguibile da pochi, va ora interpretata come una possibilità che tutti possono raggiungere mediante l’azione di un autentica educazione inclusiva. Alla base delle politiche e delle pratiche di un’educazione inclusiva, c’è il bene comune di tutti gli individui, l’accettazione delle diversità che vengono stimate come risorse e non più come limiti. Occorre dare ai soggetti gli strumenti, le abilità per uscire da questo stato di inoperosità e rassegnazione, far prender loro in mano le redini della loro esistenza, renderli padroni delle proprie idee, valori e pensieri, capaci di progettare la strada migliore per perseguire il raggiungimento del loro ben-essere. La stessa idea di funzionamento elaborata dall’ICF va intesa infatti nella sua dinamicità e non come qualcosa di statico e decontestualizzato. L’interesse anche qui si posa su ciò che potrà essere in grado di fare un individuo, apportando in modo consapevole e creativo, dei cambiamenti nella propria vita. Nel 1997 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha redatto una serie di “Life Skills” , ovvero di abilità necessarie per il raggiungimento del ben-essere. Le stesse abilità vengono riprese nel 2004 da Marzocchi, che elabora il nucleo fondamentale di queste, che è alla base delle iniziative per la promozione del ben-essere dei bambini e degli adolescenti:
    - DECISION MAKING (capacità di prendere decisioni): attivare consapevolmente ed intenzionalmente il processo decisionale valutando le diverse possibilità e conseguenze;
    - PROBLEM SOLVING (capacità di risolvere i problemi);
    - PENSIERO CREATIVO: agisce sinergicamente con le abilità precedenti;
    - PENSIERO CRITICO: analizzare e valutare le situazioni in maniera quanto più razionale ed oggettiva;
    - COMUNICAZIONE EFFICACE: riuscire ad esprimersi sia sul piano verbale che non verbale;
    - CAPACITA’ DI RELAZIONI INTERPERSONALI: riuscire ad instaurare relazioni durevoli e positive con gli altri;
    - AUTOCONSAPEVOLEZZA: il riconoscimento di sé, del proprio carattere, dei propri difetti e dei propri pregi, delle proprie idee e dei propri desideri;
    - EMPATIA: riuscire a immedesimarsi “nei panni” altrui, comprendendone i sentimenti, le emozioni gli stati d’animo;
    - GESTIONE DELLE EMOZIONI: riconoscere le proprie emozioni e quelle altrui;
    - GESTIONE DELLO STRESS: riuscire ad individuare le fonti di stress nella vita quotidiana ed agire per controllarle.
    Metodologie atte al raggiungimento e l’acquisizione delle abilità sopra citate, risultano essere quelle della partecipazione attiva che vede studenti e docenti coinvolti in un processo dinamico che include metodi come il “brainstorming”, “la discussione di gruppo”, e il “dibattito”. Un apprendimento attivo e partecipativo in gruppo è centrale per l’insegnamento delle abilità di vita. Come scrive nel suo saggio l’educatore F. Tesser: “il terreno su cui bisogna lavorare è l’esperienza. La maggior parte delle esperienze dei bambini e dei giovani, ma anche di molti adulti, oggi è la negazione stessa della possibilità dell’esperienza. Questo è il compito dell’educatore al ben-essere: rendere presente quello che c’è e permettere alle persone di riconoscerlo”


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  elvira cibelli Ven Feb 03, 2012 9:32 am

    Capitolo 1- BEN-ESSERE NELLA DISABILITA'
    Negli ultimi anni la ricerca in ambito psicologico si è particolarmente soffermata sulle varie forme del vivere bene. In molte riviste scientifiche , come l'American Psychologist,2005,si possono trovare molti articoli che trattano il concetto di ben-essere. Raggiungere questo obiettivo,quindi, non è solo un'aspirazione individuale,ma uno studio vero e proprio.
    Bisogna un attimino capire se parlare di benessere e di felicità equivale a dire la stessa cosa. Devo ammettere che prima di oggi non mi sono mai posta questo quesito,ho sempre pensato che ci potesse essere soltanto una minuscola differenza semantica,soprattutto in merito alla disabilità. Ma se si sostiene con fermezza che raggiungere il benessere mentale,fisico e sociale una persona deve essere capace di soddisfare i suoi bisogni,di realizzare le proprie aspirazioni e di vivere in armonia con l'ambiente che lo circonda,dovremmo tutti soffermarci a pensare alle reali difficoltà che una persona diversamente abile riscontrerebbe giorno dopo giorno per realizzare le proprie aspirazioni.Fino a che punto siamo in grado di promuovere il benessere delle persone disabili? E se non lo siamo, cosa possiamo fare di concreto per loro?
    Spesso ad una persona disabile manca una completa autonomia e posso solo immaginare quanto sia difficile dipendere sempre dagli altri.Sono particolarmente d'accordo con Canevaro nel sostenere che è compito della società dare i giusti input e creare le giuste iniziative per guidare OGNI persona al ben-essere generale.Alle persone non serve avere un aiuto materiale da cui dipendere 24ore al giorno,ma al contrario necessitano di avere la POSSIBILITA' di adattarsi alla società grazie ad elementi di mediazione con le strutture che lo circondano,cioè con i contesti.Bisogna,quindi, puntare tutto sull'autosufficienza e sull'autonomia,anche se non sarà totale. A tal proposito mi viene in mente un bellissimo proverbio cinese che afferma che :" se una persona muore di fame, non bisogna dargli del pesce da mangiare,ma piuttosto una canna per poter pescare!!".
    Questo perchè essere un agente attivo nella società regala molte più soddisfazioni che vivere quotidianamente dipendendo da qualcuno.
    Come afferma Edgar Morin "bisogna insegnare a vivere!"
    Anche l'ICDH e l'ICD-11 sostengono che l'aiuto deve consistere nel facilitare l'accesso all'impalcatura relazionale e divenire aiuto mutuale.E' necessario partire sempre dai punti di forza delle persone disagiate e non dai loro punti di debolezza.Nell'ambito educativo si parla sempre più di educazione inclusiva, avendo a cuore il benessere e la qualità della vita delle persone,puntando molto sulla collaborazione e sui rapporti umani, che a mio avviso dovrebbero essere il punto di forza di qualsiasi aspetto della nostra vita.Ciascuna persona deve essere incoraggiata nel seguire le proprie attitudini,i propri sogni..ed anche un diversamente abile deve poter usare i propri punti di forza, i propri talenti e coltivare le proprie passioni attraverso esperienze positive che siano per loro momento di libertà e di crescita. In tutta Europa sono state fondate molte associazioni che si occupano di tutelare i diritti dei disabili e migliorare la loro qualità di vita. In Italia possiamo rifarci alla Legge 104/92 che garantisce ai disabili gli stessi diritti di accesso ai servizi pubblici delle persone non disabili,con l'biettivo di "normalizzare" la vita delle persone con disabilità.
    Purtroppo anche se questa legge è stata un notevole passo in avanti,non dobbiamo credere di "essere arrivati" e di non dover fare niente per crescere ancora .Ognuno di noi nel suo piccolo o addirittura piccolissimo può fare tanto per creare una società più inclusiva. Le leggi ci sono, non a caso la nostra è la Costituzione più bella e studiata di tutto il mondo,ma non sempre quello che c'è sulla carta trova riscontro nelle nostre città. C'è ancora tanto da fare e, ci SARA' SEMPRE TANTO DA FARE, ma raggiungere il benessere è un diritto di tutti e non bisogna mai vederlo come una meta irraggiungibile,basta solo un pò di buon senso e di consapevolezza delle capacità di ognuno di noi...


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    Messaggio  antonellagallo86 Ven Feb 03, 2012 9:39 am

    Esercizio 2 Ben-essere Disabili
    Capitolo 6:Verso un’educazione inclusiva
    Il concetto di educazione inclusiva ha come presupposto “l’educazione per tutti” che consiste nella capacità della scuola di farsi carico di tutti gli alunni con le loro molteplici diversità. Tutti i bambini del mondo ,con i loro punti di forza e di debolezza individuali, hanno diritto all’educazione. Non spetta al sistema educativo decidere chi è adeguato e ne ha il diritto, pertanto è il sistema scolastico che deve adeguarsi in modo da rispondere alle necessità di tutti gli studenti. L’obiettivo fondamentale dell’educazione inclusiva risulta essere quello di eliminare l’esclusione sociale affinchè la scuola modifichi il proprio sguardo sugli altri, gli stranieri, i poveri, gli esclusi,in modo da trasformare il sistema educativo, che fino ad oggi ha generato delle forme di esclusione perché tendeva ad escludere le diversità e a farle convergere verso un'unica matrice culturale riconosciuta come ufficiale. L’INDEX For INCLUSION, proposta realizzata da T. Booth e M. Ainscow per il CENTRO STUDI PER L’EDUCAZIONE INCLUSIVA è lo strumento destinato alle istituzioni scolastiche, che hanno il compito di trasformare la loro cultura e le loro pratiche per arrivare ad essere delle scuole per tutti. Quando si parla di inclusione l’attenzione è posta alle barriere, interne e d esterne, che ostacolano l’apprendimento e la partecipazione di tutti gli studenti all’esperienza scolastica. Inoltre l’inclusione rivolge la sua attenzione a coloro che partecipano alla vita sociale prendendo in carico l’insieme delle differenze, comprendendo gli alunni “normali”, quelli con bisogni educativi speciali, quelli disabili e quelli dotati. Le scuole inclusive possono combattere gli atteggiamenti verso le diversità educando insieme tutti i bambini, formando così le basi per una società giusta e non discriminativa, che incoraggi le persone a vivere insieme pacificamente. Accogliere questa prospettiva significa pensare alla scuola come comunità, come luogo di crescita e apprendimento per tutti in un contesto relazionale significativo. Dunque un’educazione intesa non come un privilegio per pochi ma come un diritto per tutti. La finalità dell’educazione inclusiva è proprio quella di superare le barriere, all’apprendimento e alle partecipazione e per raggiungere l’inclusione, fondamentale è l’educazione al pensiero libero che è capace di resistere alle discriminazioni. La realizzazione di un processo di inclusione prevede che tutti gli insegnanti siano in gradi di rispondere alle differenza degli alunni, in un’ottica di sostegni distribuiti, attuando metodi di insegnamento centrati sul bambino. Accanto agli insegnanti figure fondamentale sono i genitori, la comunità in modo da creare un ottimo ambiente di apprendimento così che tutti i bambini possano apprendere bene. Concludendo possiamo affermare di essere d’accordo da quanto affermato da R. Caldin secondo cui l’inclusione è un diritto base che nessuno deve guadagnarsi, e come tale è un dovere dei governi e delle comunità rimuovere le barriere e gli ostacoli che impediscono l’inclusione sociale.


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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  veronicavalentino Ven Feb 03, 2012 9:57 am

    VERSO UN'EDUCAZIONE INCLUSIVA dal testo BEN-ESSERE DISABILI

    Si parla di inclusione soltanto da pochi anni considerando che soggetti a rischi di esclusione sociale esistono dalla notte dei tempi.Infatti,va ricordato che stiamo parlando di persone al pari di chiunque altro,che meritano lo stesso rispettto e le stesse possibilità nel campo sociale e lavorativo.Dunque l'inclusione è la nuova prospettiva per i soggetti a rischio di esclusione sociale,che non sono solo i diversamente abili,ma tutte quelle categorie che vivono una condizione di svantaggio,come i detenuti,le donne(soprattutto nei paesi meno sviluppati),gli immigrati.
    E'preferibile parlare di inslusione piuttosto che di integrazione poichè,con quest'ultimo termine,si indica l'inserimento di un soggetto in un gruppo senza che questo modifichi le sue caratteristiche per accogliere nei migliori dei modi il soggetto da integrare,facilitandogli questo processo.L'inclusione,infatti comporta proprio una riorganizzazione della struttura di un gruppo,una ridefinizione dei ruoli,un atteggiamento di accoglienza verso la nuova persona che entra a far parte del gruppo,alla quale devono essere garantite le stesse possibilità e occasioni di successo.Negli ultimi anni,per quanto rigurda la definizione della disabilità,è stato superato il modello medico,che focalizzava la sua attenzione esclusivamente sul deficit,e si sviluppato un nuovo modello,quello bio-psico-sociale,che tiene conto di aspetti biologici,psicologici e sociali,mostrando attenzione non più al deficit,ma alle potenzialità ancora non svliluppate della persona diversamente abile.
    L'inclusione è un processo fondamentale che ci consente di garantire al soggetto a rischio di esclusione sociale le stesse opportunità offerte agli altri.Una di queste opportunità,che poi è un vero e proprio diritto di tutti,indistintamente,è l'educazione.Qust'ultima infatti,è un diritto esteso a tutti ed è indispensabile per ottenere gli ideali di pace,libertà e giustizia.Si parla anche di formazione permanente(life long learning), formazione lungo l'intero arco della vita,ognuno,infatti,deve poter apprendere,conoscenze,competenze che gli permettano di vivere al meglio la propia vita,raggiungendo i propri traguardi.Inoltre l'educazione,la formazione permanente sono validissivi strumenti per favorire il processo di inclusione e dunque per combattere l'esclusione sociale.A tal proposito si è sviluppato il Capability Approch che considera l'educazione non solo connessa all'acquisizione di competenze che garantiscono il successo accademico e lavorativo,ma che conferiscano al soggetto spazi sempre più aperti di libertà personale,attraverso l'acquisizione di "funzionamenti"riguardanti il saper agire e il saper vivere in un ambiente sociale.Questo approccio apre la strada ad un modello innovativo e utile per riesaminare l'educazione inclusiva e l'educazone in generale.
    E' necessario garantire a soggetti a rischio di esclusione sociale,come ai diversamente abili con i quali,da future insegnanti specializzate,andremo a lavorare,occasioni di successo innanzitutto personale,un'educazione e una formazione che gli consentano di condurre una vita il più possibile autonoma,sentendosi parte della società e del mondo.



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    Messaggio  deliabarbato Ven Feb 03, 2012 12:08 pm

    Capitolo 7:Educarsi al ben-essere tratto dal libro “Ben-essere disabili.
    Comunemente il ben-essere viene percepito come una condizione di armonia tra l’uomo e l’ambiente, ossia come un risultato di un processo di adattamento agli innumerevoli fattori che incidono sullo stile di vita.
    Cosa si intende con il termine ben-essere?
    Il ben-essere è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano. .
    La pedagogista Marialuisa Iavarone sostiene l’importanza della formazione al ben-essere basata sull’idea che tutti possiamo imparare a star meglio e che il ben-essere non è soltanto una questione di quantità di risorse, ma soprattutto di qualità di scelte ,individuali e sociali.
    I recenti studi aprono interessanti prospettive sull’argomento. A tal proposito le “life skills” o abilità di vita tracciate dall'Unesco che in alcune sue raccomandazioni incita a implementare nel curriculum dell’insegnamento specifiche abilità di vita che sono : “imparare ad essere” e “imparare a vivere insieme”. Compito delle life skills è sostenere lo sviluppo di colui che apprende, aiutandolo a svelare il potenziale e a godere di una vita personale, sociale realizzata.
    Tale posizione dell’Unesco e le sue life skills possono essere correlate al Capability Approach che con Nussbaum(filosofa statunitense) vede lo sviluppo della capability generica, di cui tutti disponiamo, come possibilità di miglioramento in quanto si ha il potere di scegliere tra le varie opportunità della vita in modo da raggiungere una libertà personale. La scuola diviene il luogo approppriato per l’introduzione dell’insegnamento delle life skills ,essendo un ambiente adatto a stimolare l’apprendimento.
    Pertanto Sen afferma che sviluppare capability e agency porta in una persona alla crescita e alla sostenibilità.
    Insegnare a stare bene è una delle esigenze di questo terzo millennio. Come l’ educazione può promuovere il benessere di tutti i bambini?
    Il problema consiste nel far apprendere ai soggetti a progettare il benessere personale e di conseguenza ad essere pronti ad affrontare le circostanze della propria vita. Risulta a tal proposito menzionare la “pedagogia del ben-essere” che si regge sul convincimento che” imparare a stare bene” può essere insegnato affinchè i soggetti acquistino la capacità di costruire da sé stessi il benessere personale favorendo particolari processi di comunicazione tesi a sviluppare l’autonomia delle persone coinvolte.
    Canevaro propone una prospettiva più ampia della qualità della vita che non si esaurisce unicamente nella malattia/non malattia ma implica un processo di cambiamento. Mi rendo conto che l’istituzione scolastica riveste un ruolo di estrema importanza nell’educare al ben-essere intaprendendo azioni di apprendimento rivolte alla cura della relazione educativa e formativa.
    Perseguire il ben-essere nella relazione educativa significa costruire ambienti di apprendimento che aiutano l’alunno a costruire la personalità attraverso: imparare a conoscere, imparare ad essere, imparare a fare e a vivere insieme.
    La scuola ha il compito di promuovere l’integrazione sociale, sviluppare competenze adattive a livello comunicativo e sociale, aumentare il benessere emotivo, sviluppare autonomie di vita a livello personale e domestico favorendo atteggiamenti positivi nei confronti delle persone con disabilità distruggendo i pregiudizi nonché di contribuire all’abbattimento delle barriere.
    Da qui emerge la necessità di discutere su temi che riguardano la formazione, l’istruzione e l’integrazione dei soggetti diversamente abili in una prospettiva che duri per tutto l’arco della vita del soggetto.
    A mio avviso è di estrema importanza diffondere opere di sensibilizzazione al benessere in modo che tutti imparino a stare bene con sé stessi e con gli altri.
    Penso che la scuola si deve attrezzare reticolandosi con le altre agenzie formative presenti sul territorio per operare non in modo autoreferenziale ma nel modo più corretto possibile.
    Delia Barbato



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    Messaggio  Concetta Sarnelli Ven Feb 03, 2012 12:11 pm

    Capitolo 7: Educarsi al ben-essere.
    La scuola italiana, così come ogni sistema educativo, sta vivendo, nell’ultimo decennio, una stagione di cambiamento molto significativo in cui, insieme all’autonomia scolastica, si ripropone una nuova centralità del soggetto e della persona. La formazione viene quindi intesa anche come risorsa permanente per la crescita e il ben-essere di ogni individuo. Insegnare a stare bene sembra infatti una delle emergenze di questo terzo millennio, giacché in esso sembra prevalere malessere, frustrazione e insoddisfazione. Di conseguenza chi vive nel benessere è visto come un vincente, ma soprattutto come una rarità, mentre il ben-essere deve essere esteso a tutti.
    L’impegno sul fronte educativo appare evidente: i sistemi formativi e dell’istruzione- rappresentando il luogo in cui gli studenti quotidianamente sperimentano processi di apprendimento vivendo straordinarie opportunità di crescita intellettuale, di maturazione, di acquisizione di consapevolezza critica e di responsabilità, ma, al tempo stesso, in cui si misurano anche con le difficoltà , la fatica, gli errori ed i momentanei insuccessi- dovrebbero contribuire a far apprendere ai soggetti a progettare il proprio benessere e di conseguenza a padroneggiare tutte le circostanze della propria vita collegate ai diversi stati sia di ben-essere, sia di mal-essere.
    Il concetto di ben-essere si trasforma da condizione a possibilità, in quanto il problema si proietta in una prospettiva culturale e educativa in cui diviene possibile “imparare a stare meglio” disancorando sempre più il significato di ben-essere da aspetti meramente quantitativi (ricordiamo infatti che siamo nell’era del consumismo, in cui il ben-essere viene principalmente associato non ad un equilibrio psico-fisico, ma alla ricchezza) e legandolo sempre più a significati qualitativi. Si spiana così la strada verso una pedagogia del ben-essere che attraverso lo sviluppo di specifiche relazione educative, punti a generare negli individui atteggiamenti e comportamenti positivi e pro-attivi nei riguardi della vita e del proprio benessere esistenziale.
    Nella società, a mio avviso mediante il mondo virtuale, per raggiungere il ben-essere si tende a creare spazi speciali, artificiali per produrre esperienze che concorrano al benessere, mentre la strada giusta sarebbe quella di rendere la vita un’esperienza, in cui le coordinate di spazio e di tempo non ci separino dagli altri ma ci uniscano, perché il processo di apprendimento si configura come un processo sociale e perché l’ambiente umano e la diversa qualità delle relazioni che lo caratterizzano determina l’efficacia o meno del percorso di conoscenza. Il compito dell’educatore è quello di rendere presente ciò che realmente c’è e permettere alle persone di riconoscerlo.
    Proprio nell’ottica della centralità della persona, lavorare a un progetto di ben-essere in ambito scolastico deve necessariamente tradursi nell’impegno di realizzare il miglior processo di apprendimento possibile che tenda a realizzare il miglior livello di ben-essere per ogni persona.
    Le raccomandazioni dell’UNESCO vanno nella direzione di implementare nel curriculum l’insegnamento di specifiche abilità di vita che sono “imparare ad essere” e “imparare a vivere” oltre al conoscere e al fare e questo può facilmente essere correlato al rinforzo delle capabilities positive della persona. Si parla di capability approach, un termine emerso con l’obiettivo di rendere le persone in grado di reagire quando sono poste di fronte a situazioni difficili. In questo contesto il capability approach è correlato alle life skills, l'insieme di abilità personali e relazionali che servono per governare i rapporti con il resto del mondo e per affrontare positivamente la vita quotidiana, "competenze sociali e relazionali che permettono ai ragazzi di affrontare in modo efficace le esigenze della vita quotidiana, rapportandosi con fiducia a se stessi, agli altri e alla comunità", abilità e competenze "che è necessario apprendere per mettersi in relazione con gli altri e per affrontare i problemi, le pressioni e gli stress della vita quotidiana. Queste sostengono il perseguimento dello sviluppo personale di colui che apprende, lo aiutano a svelare il proprio potenziale, e godere di una vita personale, professionale e sociale realizzata. Quindi l’attenzione sulle life skills è l’attenzione su capabilities specifiche, che rendono possibile superare situazioni di crisi, e contribuire alla capacità della persona di resilienza. In questo senso ci aiuta anche l’ICF che, come afferma Canevaro, sposta l’attenzione dalla malattia al funzionamento in proiezione e progettazione dinamica, concentrandosi su quello che può fare un individuo introducendo nella propria vita dei cambiamenti.
    Il nucleo fondamentale delle skills of life, pubblicate dall’OMS nel 1997 nel documento Life skills education in schools, era costituito dalle seguenti abilità e competenze:decision making, problem solving, pensiero creativo, pensiero critico, comunicazione efficace, capacittà di relazioni interpersonali, autoconsapevolezza, empatia, gestione delle emozioni, gestione dello stress. Queste abilità di vita rendono in grado l’individuo di trasformare la conoscenza, gli atteggiamenti e i valori in abilità attuali (cosa fare e come farlo).
    Affinché ciò avvenga fondamentale è l’auto-determinazione degli studenti, su cui negli ultimi anni la ricerca si è focalizzata al fine di individuare metodi e materiali per promuoverla. Le persone con autodeterminazione sono attori delle loro vite, invece che subirle.
    L’acquisizione delle suddette abilità di vita è basato sull’apprendimento attraverso la partecipazione attiva ed esperenziale. Le lezioni necessitano di essere strutturate in modo tale da permettere le opportunità per la pratica di abilità in un ambiente di apprendimento supportivo.
    Le capabilities di una persona riguardano il grado di libertà che questa persona può raggiungere, il suo potere di scelta tra varie opzioni di vita; per espandere la libertà sostanziale delle persone a vivere la vita che essi vogliono e permettere la realizzazione delle loro scelte reali, l’educazione può e deve essere vista come fondativa di altre capabilities.
    Martha Nussbaum ha fornito alcune linee guida pedagogiche su come promuovere le libertà attraverso l’educazione, individuando 3 capacità essenziali, strettamente collegate con lo sviluppo delle abilità di vita:capacità di esame critico di se stessi, necessità di concepire se stessi come cittadini del mondo (che significa adottare un’attitudine al rispetto reciproco), nattatve imaginatione, cioè l’abilità di pensare cosa potrebbe significare essere nella stessa situazione di un’altra persona.
    Quest’ultima capacità, più delle altre due, è a mia avviso una soluzione. Credo infatti che mettersi nei panni degli altri, in situazioni grandi o piccole che siano, ci permette di capire a fondo e vestirci di umiltà: nel momento in cui mi metto nei panni di un’altra persona evito comportamenti sbagliati, perché riconosco che quei comportamenti potrebbero essere per me dannosi, di conseguenza lo saranno anche per altri.
    Durante tutta la lettura di questo importante capitolo ho pensato al collegamento tra pedagogia e psicologia, ricordando ciò che ho potuto imparare dall’esame di Psicologia di comunità. Questa disciplina, così come ogni argomento riportato in queste pagine, punta a comprendere e a migliorare la vita degli individui considerandoli nei loro contesti esistenziali. A tale scopo sono tre i processi messi in atto, e tra questi trovo particolarmente indicato, in questo contesto, il primo, cioè l’empowerment. Esso consiste nell’incremento del potere di autocontrollo rendendo gli individui “più capaci” di accedere a risorse disponibili per far fronte al disagio derivante dalle difficoltà e dagli stressori socio-ambientali.
    Altra tecnica è quella dell’autoaiuto, importante soprattutto se si pensa all’apprendimento delle abilità di vita come processo sociale, che riguarda l’insieme di metodologie e tecniche di gruppo finalizzate al mutuo aiuto (aiuto reciproco).
    Infine vi è il sostegno sociale, consistente nel supporto emotivo, informativo, interpersonale e materiale che è possibile ricevere e scambiare nella rete sociale della propria comunità.
    Come nota conclusiva esterno di essere soddisfatta della scelta fatta, perché ritengo la ricerca del ben-essere una questione centrale in una società in cui vivono situazioni di handicap non solo individui diversamente abili, ma anche individui con determinate caratteristiche relative alla propria personalità e al proprio carattere.

    Bibliografia:
    -Ghedin E., Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione, Liguori, Napoli, 2010.
    -C. Varriale,Psicologia di comunità.
    -http://www.orientamentoirreer.it/materiali/LifeSkillsOms.htm



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    Messaggio  Maria Guerra Ven Feb 03, 2012 12:14 pm

    Il gruppo è composto da Maria Guerra e Federica Tortorelli.
    Il testo scelto è: "Ben-essere disabili" Capitolo 1 "Ben-essere nella disabilità".

    Sin dall’antichità il termine “normalità” ha coinciso con un modello di persona conforme alle richieste della società e ogni menomazione fisica diventava causa di omologazione negativa di una persona.
    A Sparta, i bambini deformi venivano lanciati dal monte Taigeto. Con il cristianesimo, a Roma, i neonati minorati venivano esposti fuori dalle mura della città e venivano affidati alla pietà dei passanti. Nel 16° e 17° secolo, questi bambini venivano emarginati dalla società. Venne coniato il termine “cretino” per definire “povero Cristo” chi aveva il gozzo. Seguì il termine “idiota” , “subnormale”, “disabile” e più di recente, con la legge 517/77, “handicappato”.
    All’inizio del 1800, molti bambini e adulti con disabilità venivano assistiti nelle istituzioni con finalità caritatevoli. In parte queste istituzioni sono cresciute dagli sforzi di Edouard Seguin, un medico francese che guidò la prima scuola per bambini disabili. Seguin promosse la visione che i bambini con disabilità potessero essere appropriamente educati e, quindi, assumere il loro giusto ruolo nella società. Il modello formativo di scuola promosso da Seguin si diffuse rapidamente, ma nel corso del tempo queste scuole cambiarono drasticamente il loro obiettivo. Gli studenti non venivano curati e le scuole divennero meno educative e più affidatarie. Invece di favorire il ritorno di persone nella società, le istituzioni divennero posti per tenere le persone lontane dalla società. Tale isolamento favorì la segregazione, il sovraffollamento e l’abbandono che caratterizzò molte di queste istituzioni.
    Tra il 1861 e il 1928, la formazione scolastica degli handicappati non era garantita dallo stato, ma era affidata a organizzazioni private, enti e associazioni religiose. La riforma Gentile del 1923 istituisce per la prima volta nella scuola elementare le “classi differenziali” per gli alunni che presentavano “anormalità di sviluppo”. Nel 1933 nascono le “scuole speciali” per bambini affetti da malattie contagiose, anormali e minorati fisici.
    Maria Montessori si interessò in maniera mirata all’educazione dei bambini portatori di handicaps.
    Nel periodo fascista, la scolarizzazione dei bambini portatori di handicap fu trascurata.
    Negli anni passati si è passati dalla deistituzionalizzazione all’inclusione di queste persone nella comunità, attraverso lo sviluppo di servizi di educazione speciale e supporto alle famiglie, e programmi basati sulla comunità che mirano ad incontrare i bisogni materiali degli adulti come le cure mediche, il cibo, il vestiario, il lavoro. Questi servizi hanno enfatizzato le abilità di adattamento, specialmente comportamenti che facilitano l’indipendenza, e si avvicinano al concetto di autodeterminazione, che mira a rendere in grado le persone con disabilità di compiere scelte personali per la loro vita. Ecco allora che in questa direzione si cerca di promuovere il benessere delle persone disabili e risulta strategico l’aspetto relazionale soprattutto al modo con cui si guarda alla vita e ai rapporti che si costruiscono e si coltivano. Il benessere più che una condizione stabile, rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni che mutano in rapporto ai cambiamenti dello sviluppo delle diverse fasi evolutive.
    E’ importante considerare il benessere non come uno stato individuale, ma come un progetto dinamico da condividere con gli altri. A tal proposito, Aristotele, “nell’Etica Nicomachea, parla di interazione tra il ben-essere e il ben-essere collettivo, tale per cui la felicità viene individuata nell’ambito dello spazio sociale. In questo caso, viene portata in primo piano la relazione tra ben-essere del singolo e sviluppo della collettività, nella quale l’interdipendenza tra individuo e contesto culturale è un dato inequivocabile alla natura umana. La Delle Fave afferma che ciascun individuo deve essere visto come un agente attivo di cambiamento e sviluppo della comunità e questo vale per tutti i membri e soprattutto per i gruppi svantaggiati: persone con disabilità, anziani, immigrati e minoranze. Queste persone non sono di per sé svantaggiate, ma lo diventano in un ambiente in cui la loro condizione comporti conseguenze svantaggiose, a causa di qualche discrepanza rispetto alle aspettative e alle regole sociali.
    Ognuno di noi nascendo ha la capacità di ben-essere. Ognuno ha un suo modo originale di vedere, ascoltare, toccare, pensare. E, quindi, ognuno ha un proprio potenziale irripetibile di possibilità e di limiti. Tutti abbiamo la possibilità per decidere di essere ciò che vogliamo attivando questo potenziale e creando un ambiente “facilitante” in cui gli attori possano essere in grado di raggiungere uno sviluppo positivo.
    La qualità della vita comprende le esperienze di vita esterne e oggettive vissute dalle persone con disabilità come pure i loro livelli soggettivi di soddisfazione con quelle esperienze. L’obiettivo del Movimento della qualità della vita è l’analisi della soddisfazione interna della persona disabile, sviluppata anche grazie all’aiuto di due agenzie educative, quali la famiglia e la scuola.
    La ricerca sulle famiglie ha rilevato che la figura materna è stata assimilata ad una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si riaccende ad ogni fase dello sviluppo del bambino. Alla nascita di un figlio sono connesse profonde aspettative di gratificazione personale e sociale. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato.
    In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità di cura da parte dei familiari nei confronti del figlio e/o fratello disabile. In questo processo vengono coinvolti non solo i genitori ma anche fratelli e sorelle che possono vivere in modo diversificato la relazione.
    L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. I partner, oltre ad essere coniugi, diventano genitori e molto spesso si sentono preoccupati e confusi, se non addirittura perduti. Un bambino disabile può capitare alla ragazzina di diciassette anni che resta incinta durante le prime inesperte esperienze amorose, così come può capitare alla coppia in carriera, che prima di avere un figlio predispone tutto, incluso villa con piscina, per il figlio, per poi sperimentare che ha rincorso delle chimere e che di tutto ciò che aveva previsto e per cui aveva lottato non serve.
    I risultati di una ricerca condotta da Uppal, evidenziano che le persone disabili alla nascita dimostrano di essere più felici rispetto alle persone che sono diventate disabili nel corso degli anni. Una significativa testimonianza ci è stata data dal professor Palladino, il quale pur perdendo la vista all’età di tredici anni, ha avuto la forza di riorganizzare la sua vita e di viverla con grande felicità. Moltissime sono le parole del professor Palladino che ci hanno colpito: “Mi sento ricco e non posso che augurare a voi tutti questa mia felicità”.
    Infondo, che cos’è la felicità?
    Il concetto di felicità compare in ogni cultura. Molte lingue distinguono tra qualcosa di immediato (gioia o piacere) e qualcosa di più durevole e significativo (soddisfazione e appagamento).
    Molti usi del termine felicità possono essere classificati in tre livelli:
    - Primo Livello, dove il senso più immediato e diretto di felicità implica un’emozione o una sensazione, qualcosa come gioia o piacere transitorio;
    - Secondo Livello, quando le persone affermano di essere felici della loro vita è perché, facendo un bilancio tra dolori e piaceri, hanno sperimentato più piaceri ed emozioni positive;
    - Terzo Livello, nel quale la persona realizza le proprie vere potenzialità con l‘obiettivo del vivere bene.
    La felicità, da un punto di vista edonistico, riguarda la massimizzazione dei piaceri e la minimizzazione del dolore, mentre, da un punto di vista eudaimonico, questa riguarda il perseguimento del proprio vero sé.
    La seconda agenzia educativa incontrata dal bambino disabile è la scuola.
    Le persone disabili sono l’esempio più evidente di quelle forme di esclusione e abbandono scolastico e lavorativo. Per progettare misure di supporto autenticamente emancipative e non rischiare di arrestare la crescita del soggetto in forme di dipendenza e assistenzialismo, il sostegno deve porsi come “un’impalcatura” di supporto alla realizzazione di compiti e di attività. Così come in un’opera edilizia, l’impalcatura serve a sorreggere gli operai mentre realizzano lavori di costruzione, allo stesso modo il sostegno, come modalità di accompagnamento alla crescita, dovrebbe sostenere in modo progressivo il soggetto e prevedere forme sempre più autonome di assistenza a mano a mano che il percorso verso l’autonomia avanza. Il ruolo degli insegnanti nell’educazione di tutti i bambini, quindi, è fondamentale. L’obiettivo prioritario nel campo dell’educazione è quello di favorire l’adozione di un atteggiamento positivo nei confronti delle esperienze di vita per essere in grado di gestire le proprie scelte e di adottare comportamenti consapevoli nella direzione della propria felicità.
    Il compito dell’inclusione è quello di favorire una migliore e piena integrazione della persona nel contesto sociale ed economico non solo attraverso l’offerta dei servizi e di assistenza, ma anche di opportunità per tutti i cittadini di sostenere lo sviluppo attraverso la partecipazione attiva.
    L’Anno Europeo per l’inclusione sociale rappresenta la naturale continuità di altre iniziative che hanno visto un impegno attivo dell’Unione per la rimozione di ostacoli e barriere sociali,. Ricordiamo come il 2007 sia stato dichiarato Anno Europeo delle pari opportunità per tutti, individuando come obiettivi primari: una maggiore e diffusa consapevolezza tra i cittadini europei del loro diritto ad un trattamento equo ed egualitario e ad una vita priva di discriminazioni; il riconoscimento del valore della diversità per la società europea. Si è inteso contrastare la discriminazione ma anche valorizzare la diversità e la pluralità di talenti promuovendo una maggiore e più diffusa consapevolezza delle risorse, dei diritti e delle possibilità di tutta la popolazione europea. Lo scopo è consentire ai disabili di partecipare alla società, compresi i disabili gravi, prestando la debita attenzione anche alle esigenze e agli interessi dei loro familiari e accompagnatori; integrare la prospettiva della disabilità in tutti i settori per la formulazione e attuazione di politiche sociali; consentire alle persone con disabilità di partecipare pienamente alla vita sociale, eliminando ogni tipo di barriera; diffondere una cultura della disabilità e promuovere strategie basate sulle pari opportunità.
    Tutto ciò affinché la diversità non si trasformi in disuguaglianza.




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    Messaggio  Federica.Tortorelli Ven Feb 03, 2012 12:15 pm

    Il gruppo è composto da Maria Guerra e Federica Tortorelli.
    Il testo scelto è: "Ben-essere disabili" Capitolo 1 "Ben-essere nella disabilità".

    Sin dall’antichità il termine “normalità” ha coinciso con un modello di persona conforme alle richieste della società e ogni menomazione fisica diventava causa di omologazione negativa di una persona.
    A Sparta, i bambini deformi venivano lanciati dal monte Taigeto. Con il cristianesimo, a Roma, i neonati minorati venivano esposti fuori dalle mura della città e venivano affidati alla pietà dei passanti. Nel 16° e 17° secolo, questi bambini venivano emarginati dalla società. Venne coniato il termine “cretino” per definire “povero Cristo” chi aveva il gozzo. Seguì il termine “idiota” , “subnormale”, “disabile” e più di recente, con la legge 517/77, “handicappato”.
    All’inizio del 1800, molti bambini e adulti con disabilità venivano assistiti nelle istituzioni con finalità caritatevoli. In parte queste istituzioni sono cresciute dagli sforzi di Edouard Seguin, un medico francese che guidò la prima scuola per bambini disabili. Seguin promosse la visione che i bambini con disabilità potessero essere appropriamente educati e, quindi, assumere il loro giusto ruolo nella società. Il modello formativo di scuola promosso da Seguin si diffuse rapidamente, ma nel corso del tempo queste scuole cambiarono drasticamente il loro obiettivo. Gli studenti non venivano curati e le scuole divennero meno educative e più affidatarie. Invece di favorire il ritorno di persone nella società, le istituzioni divennero posti per tenere le persone lontane dalla società. Tale isolamento favorì la segregazione, il sovraffollamento e l’abbandono che caratterizzò molte di queste istituzioni.
    Tra il 1861 e il 1928, la formazione scolastica degli handicappati non era garantita dallo stato, ma era affidata a organizzazioni private, enti e associazioni religiose. La riforma Gentile del 1923 istituisce per la prima volta nella scuola elementare le “classi differenziali” per gli alunni che presentavano “anormalità di sviluppo”. Nel 1933 nascono le “scuole speciali” per bambini affetti da malattie contagiose, anormali e minorati fisici.
    Maria Montessori si interessò in maniera mirata all’educazione dei bambini portatori di handicaps.
    Nel periodo fascista, la scolarizzazione dei bambini portatori di handicap fu trascurata.
    Negli anni passati si è passati dalla deistituzionalizzazione all’inclusione di queste persone nella comunità, attraverso lo sviluppo di servizi di educazione speciale e supporto alle famiglie, e programmi basati sulla comunità che mirano ad incontrare i bisogni materiali degli adulti come le cure mediche, il cibo, il vestiario, il lavoro. Questi servizi hanno enfatizzato le abilità di adattamento, specialmente comportamenti che facilitano l’indipendenza, e si avvicinano al concetto di autodeterminazione, che mira a rendere in grado le persone con disabilità di compiere scelte personali per la loro vita. Ecco allora che in questa direzione si cerca di promuovere il benessere delle persone disabili e risulta strategico l’aspetto relazionale soprattutto al modo con cui si guarda alla vita e ai rapporti che si costruiscono e si coltivano. Il benessere più che una condizione stabile, rappresenta una costruzione variabile fatta di tappe intermedie e di modificazioni che mutano in rapporto ai cambiamenti dello sviluppo delle diverse fasi evolutive.
    E’ importante considerare il benessere non come uno stato individuale, ma come un progetto dinamico da condividere con gli altri. A tal proposito, Aristotele, “nell’Etica Nicomachea, parla di interazione tra il ben-essere e il ben-essere collettivo, tale per cui la felicità viene individuata nell’ambito dello spazio sociale. In questo caso, viene portata in primo piano la relazione tra ben-essere del singolo e sviluppo della collettività, nella quale l’interdipendenza tra individuo e contesto culturale è un dato inequivocabile alla natura umana. La Delle Fave afferma che ciascun individuo deve essere visto come un agente attivo di cambiamento e sviluppo della comunità e questo vale per tutti i membri e soprattutto per i gruppi svantaggiati: persone con disabilità, anziani, immigrati e minoranze. Queste persone non sono di per sé svantaggiate, ma lo diventano in un ambiente in cui la loro condizione comporti conseguenze svantaggiose, a causa di qualche discrepanza rispetto alle aspettative e alle regole sociali.
    Ognuno di noi nascendo ha la capacità di ben-essere. Ognuno ha un suo modo originale di vedere, ascoltare, toccare, pensare. E, quindi, ognuno ha un proprio potenziale irripetibile di possibilità e di limiti. Tutti abbiamo la possibilità per decidere di essere ciò che vogliamo attivando questo potenziale e creando un ambiente “facilitante” in cui gli attori possano essere in grado di raggiungere uno sviluppo positivo.
    La qualità della vita comprende le esperienze di vita esterne e oggettive vissute dalle persone con disabilità come pure i loro livelli soggettivi di soddisfazione con quelle esperienze. L’obiettivo del Movimento della qualità della vita è l’analisi della soddisfazione interna della persona disabile, sviluppata anche grazie all’aiuto di due agenzie educative, quali la famiglia e la scuola.
    La ricerca sulle famiglie ha rilevato che la figura materna è stata assimilata ad una madre che rimpiange la perdita del bambino perfetto e idealizzato, con un dolore che si riaccende ad ogni fase dello sviluppo del bambino. Alla nascita di un figlio sono connesse profonde aspettative di gratificazione personale e sociale. Quando invece del “bambino sano e bello” nasce un figlio con disabilità, il fatto si trasforma in un evento angosciante e luttuoso. Le madri passano attraverso diversi stadi: shock, disorganizzazione emotiva e poi riorganizzazione, dopo che esse si adattano al trauma di avere un bambino con disabilità. Da una ricerca condotta da Mullins su circa sessanta libri scritti da genitori di figli disabili, è emerso che la disabilità dei loro figli ha aggiunto qualcosa alle loro vite rendendole anche più ricche di significato.
    In questa situazione, la famiglia tende a ridefinirsi, partendo dalle priorità quotidiane che richiedono l’assunzione di responsabilità di cura da parte dei familiari nei confronti del figlio e/o fratello disabile. In questo processo vengono coinvolti non solo i genitori ma anche fratelli e sorelle che possono vivere in modo diversificato la relazione.
    L’arrivo di un figlio è un evento importantissimo: una trasformazione di vita. I partner, oltre ad essere coniugi, diventano genitori e molto spesso si sentono preoccupati e confusi, se non addirittura perduti. Un bambino disabile può capitare alla ragazzina di diciassette anni che resta incinta durante le prime inesperte esperienze amorose, così come può capitare alla coppia in carriera, che prima di avere un figlio predispone tutto, incluso villa con piscina, per il figlio, per poi sperimentare che ha rincorso delle chimere e che di tutto ciò che aveva previsto e per cui aveva lottato non serve.
    I risultati di una ricerca condotta da Uppal, evidenziano che le persone disabili alla nascita dimostrano di essere più felici rispetto alle persone che sono diventate disabili nel corso degli anni. Una significativa testimonianza ci è stata data dal professor Palladino, il quale pur perdendo la vista all’età di tredici anni, ha avuto la forza di riorganizzare la sua vita e di viverla con grande felicità. Moltissime sono le parole del professor Palladino che ci hanno colpito: “Mi sento ricco e non posso che augurare a voi tutti questa mia felicità”.
    Infondo, che cos’è la felicità?
    Il concetto di felicità compare in ogni cultura. Molte lingue distinguono tra qualcosa di immediato (gioia o piacere) e qualcosa di più durevole e significativo (soddisfazione e appagamento).
    Molti usi del termine felicità possono essere classificati in tre livelli:
    - Primo Livello, dove il senso più immediato e diretto di felicità implica un’emozione o una sensazione, qualcosa come gioia o piacere transitorio;
    - Secondo Livello, quando le persone affermano di essere felici della loro vita è perché, facendo un bilancio tra dolori e piaceri, hanno sperimentato più piaceri ed emozioni positive;
    - Terzo Livello, nel quale la persona realizza le proprie vere potenzialità con l‘obiettivo del vivere bene.
    La felicità, da un punto di vista edonistico, riguarda la massimizzazione dei piaceri e la minimizzazione del dolore, mentre, da un punto di vista eudaimonico, questa riguarda il perseguimento del proprio vero sé.
    La seconda agenzia educativa incontrata dal bambino disabile è la scuola.
    Le persone disabili sono l’esempio più evidente di quelle forme di esclusione e abbandono scolastico e lavorativo. Per progettare misure di supporto autenticamente emancipative e non rischiare di arrestare la crescita del soggetto in forme di dipendenza e assistenzialismo, il sostegno deve porsi come “un’impalcatura” di supporto alla realizzazione di compiti e di attività. Così come in un’opera edilizia, l’impalcatura serve a sorreggere gli operai mentre realizzano lavori di costruzione, allo stesso modo il sostegno, come modalità di accompagnamento alla crescita, dovrebbe sostenere in modo progressivo il soggetto e prevedere forme sempre più autonome di assistenza a mano a mano che il percorso verso l’autonomia avanza. Il ruolo degli insegnanti nell’educazione di tutti i bambini, quindi, è fondamentale. L’obiettivo prioritario nel campo dell’educazione è quello di favorire l’adozione di un atteggiamento positivo nei confronti delle esperienze di vita per essere in grado di gestire le proprie scelte e di adottare comportamenti consapevoli nella direzione della propria felicità.
    Il compito dell’inclusione è quello di favorire una migliore e piena integrazione della persona nel contesto sociale ed economico non solo attraverso l’offerta dei servizi e di assistenza, ma anche di opportunità per tutti i cittadini di sostenere lo sviluppo attraverso la partecipazione attiva.
    L’Anno Europeo per l’inclusione sociale rappresenta la naturale continuità di altre iniziative che hanno visto un impegno attivo dell’Unione per la rimozione di ostacoli e barriere sociali,. Ricordiamo come il 2007 sia stato dichiarato Anno Europeo delle pari opportunità per tutti, individuando come obiettivi primari: una maggiore e diffusa consapevolezza tra i cittadini europei del loro diritto ad un trattamento equo ed egualitario e ad una vita priva di discriminazioni; il riconoscimento del valore della diversità per la società europea. Si è inteso contrastare la discriminazione ma anche valorizzare la diversità e la pluralità di talenti promuovendo una maggiore e più diffusa consapevolezza delle risorse, dei diritti e delle possibilità di tutta la popolazione europea. Lo scopo è consentire ai disabili di partecipare alla società, compresi i disabili gravi, prestando la debita attenzione anche alle esigenze e agli interessi dei loro familiari e accompagnatori; integrare la prospettiva della disabilità in tutti i settori per la formulazione e attuazione di politiche sociali; consentire alle persone con disabilità di partecipare pienamente alla vita sociale, eliminando ogni tipo di barriera; diffondere una cultura della disabilità e promuovere strategie basate sulle pari opportunità.
    Tutto ciò affinché la diversità non si trasformi in disuguaglianza.



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    Messaggio  Tiziana Piscitelli Ven Feb 03, 2012 12:38 pm

    Capitolo 3: Uno sguardo oltre... la disabilità


    Riflettendo sul tema della disabilità e ponendolo in relazione ai nostri studi universitari, abbiamo considerato che nel corso del Novecento numerosi sono stati i cambiamenti in merito. Anzitutto vorremmo ricordare che prima di parlare di soggetti con diversa abilità o disabili, questi venivano denominati minorati, soggetti speciali, intendendo con questi termini rispettivamente soggetti con menomazioni e soggetti al di fuori dell’ordinario, che, in quanto tali, dovevano essere trattati in maniera differente dai soggetti normali. Solo negli anni ’70 fu introdotto il termine handicap.
    Questa parentesi è necessaria per effettuare un passaggio dalla persona diversamente abile, alla diversità, che allo stesso modo nel corso del secolo scorso ha conosciuto diverse definizioni e modelli di riferimento.
    A questo punto, ci sembra dovuto e necessario, affrontare l’evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel tempo; analizzeremo quindi il modello biomedico, quello sociale ed infine il modello biopsicosociale.
    Il modello medico della disabilità la definisce come un impedimento biologico permanente e considera gli individui con disabilità come meno abili rispetto a quelli che sono guariti da una malattia o che sono non disabili. Le persone disabili sono considerate come “anormali”, di conseguenza la disabilità è come una deviazione dalla normalità e dalla norma (anche se a nostro avviso il concetto stesso di normalità è un prodotto culturale). Il modello medico viene associato all’ ICDH (International Classification of Impairment Disability and Handicap. Il concetto fondamentale dell’ICIDH è basato sulla sequenza:
    Malattia -> Menomazione -> Disabilità -> Handicap.
    Questo schema portava però ad una errata interpretazione dei rapporti intercorrenti tra ciò che veniva classificato nei tre ambiti come conseguenza della malattia, in quanto le frecce, evidenziandone un nesso causale, sembravano voler presentare una situazione che necessariamente evolveva nel tempo in una determinata maniera.
    Da queste considerazioni emerge, pertanto, che l’approccio medico induce ad una medicalizzazione ed individualizzazione della disabilità senza considerare variabili di tipo ambientali o sociali. Si segna così, tra gli anni Settanta/Ottanta, il passaggio dal modello biomedico a quello sociale, secondo cui i fattori contestuali, fattori esterni-ambientali e fattori interni-personali, costituivano delle componenti importanti del processo di handicap. La prospettiva sociale, infatti, muove dalla necessità di considerare che per garantire la partecipazione del soggetto con diversa abilità, non bisogna cambiare il soggetto stesso, quanto piuttosto l’accessibilità delle strutture e degli atteggiamenti.
    Tuttavia sia il modello biomedico che quello sociale risultano parziali, evidenziando dei limiti. Ecco che nel 1977 lo psichiatra americano George Engel sviluppò una nuova prospettiva, definita: “Modello Biopsicosociale”, in cui la salute viene valutata complessivamente secondo tre dimensioni: biologica, individuale e sociale.( sulla base della concezione multidimensionale della salute descritta nel 1947 dal WHO (World Health Organization)
    È in sostanza il passaggio da un approccio individuale ad uno socio-relazionale nello studio della disabilità. La disabilità viene intesa, infatti, come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, fattori personali e fattori ambientali, che rappresentano le circostanze in cui egli vive. Ne consegue che ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale.
    È su questa base che nel maggio del 2001 l’OMS ha pubblicato un nuovo manuale di classificazione: l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health). A differenza della precedente Classificazione ICIDH, l’ICF non è una classificazione delle "conseguenze delle malattie" ma delle "componenti della salute".
    In tal senso l’ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte le persone, proprio perché fornisce informazioni che descrivono il funzionamento umano e le sue restrizioni.
    Alla luce di quanto detto e riprendendo il pensiero di Pfeiffer, nessun modello singolo può totalmente spiegare la disabilità. Quelli che abbiamo riportato, infatti, costituiscono l’uno l’evoluzione del precedente. Un’ulteriore modello ritenuto valido per definire la disabilità è il “modello delle capability” formulato a metà degli anni Ottanta da Amartya Sen, professore di economia e filosofia ad Harvard insignito del Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Con l’espressione capabilities, il professor Sen intende la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. La conclusione a cui Sen perviene è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita.
    Patricia Welch e Lorella Terzi guardano alla disabilità utilizzando tale approccio; pertanto muovono da una considerazione di essa come ad una possibile fonte di limitazione delle capability dell’individuo, proponendosi di valutare l’impatto che essa ha sulla posizione reciproca degli individui all’interno dei contesti istituzionali e sociali in cui sono inseriti. Quando una menomazione restringe i funzionamenti di base di una persona, o quando l’ambiente non le permette di superare tali restrizioni, allora anche la sua capability di perseguire gli obiettivi che essa reputa di valore per
    la sua esistenza è compromessa. La società deve quindi intervenire per fare in modo che la persona sia in grado di perseguire tali obiettivi.
    Infine come sostiene Mitra l’approccio delle capability si costituisce come un tentativo di includere fattori di tipo economico tra le determinanti della disabilità. La domanda posta da Mitra è: “in che modo l’ambiente economico e le risorse disponibili possono influenzare direttamente l’essere o meno disabile di una persona?”.
    La questione di Mitra ci ha rimandato ad una lezione del corso “Politiche sociali per l’ inserimento del disabile”, durante la quale venne proposto il film “Si può fare”.
    Il film racconta la storia di un imprenditore Nello (interpretato da Claudio Bisio) che perdendo la propria prestigiosa posizione, si ritrova a dirigere una cooperativa di ex pazienti di ospedali psichiatrici, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, il direttore Nello, spinge ciascun socio della cooperativa a imparare un mestiere affinchè possa sottrarsi alle elemosine dell’assistenza.

    Dal film si evince l’importanza dell’ambiente economico, ed in particolare la possibilità per un soggetto con diversa abilità di ricevere uno stipendio mensile, tale da favorirgli la vera integrazione nella società.
    L’ambiente sociale, culturale ed economico sono centrali affinchè possa determinarsi il processo di integrazione e soprattutto affinchè il soggetto in primis non si senta, come negli anni addietro etichettata come “persona menomata” ma semplicemente come una persona alla pari degli altri.


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    Messaggio  Francesca Manfellotti Ven Feb 03, 2012 12:40 pm

    Capitolo 3: Uno sguardo oltre... la disabilità


    Riflettendo sul tema della disabilità e ponendolo in relazione ai nostri studi universitari, abbiamo considerato che nel corso del Novecento numerosi sono stati i cambiamenti in merito. Anzitutto vorremmo ricordare che prima di parlare di soggetti con diversa abilità o disabili, questi venivano denominati minorati, soggetti speciali, intendendo con questi termini rispettivamente soggetti con menomazioni e soggetti al di fuori dell’ordinario, che, in quanto tali, dovevano essere trattati in maniera differente dai soggetti normali. Solo negli anni ’70 fu introdotto il termine handicap.
    Questa parentesi è necessaria per effettuare un passaggio dalla persona diversamente abile, alla diversità, che allo stesso modo nel corso del secolo scorso ha conosciuto diverse definizioni e modelli di riferimento.
    A questo punto, ci sembra dovuto e necessario, affrontare l’evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel tempo; analizzeremo quindi il modello biomedico, quello sociale ed infine il modello biopsicosociale.
    Il modello medico della disabilità la definisce come un impedimento biologico permanente e considera gli individui con disabilità come meno abili rispetto a quelli che sono guariti da una malattia o che sono non disabili. Le persone disabili sono considerate come “anormali”, di conseguenza la disabilità è come una deviazione dalla normalità e dalla norma (anche se a nostro avviso il concetto stesso di normalità è un prodotto culturale). Il modello medico viene associato all’ ICDH (International Classification of Impairment Disability and Handicap. Il concetto fondamentale dell’ICIDH è basato sulla sequenza:
    Malattia -> Menomazione -> Disabilità -> Handicap.
    Questo schema portava però ad una errata interpretazione dei rapporti intercorrenti tra ciò che veniva classificato nei tre ambiti come conseguenza della malattia, in quanto le frecce, evidenziandone un nesso causale, sembravano voler presentare una situazione che necessariamente evolveva nel tempo in una determinata maniera.
    Da queste considerazioni emerge, pertanto, che l’approccio medico induce ad una medicalizzazione ed individualizzazione della disabilità senza considerare variabili di tipo ambientali o sociali. Si segna così, tra gli anni Settanta/Ottanta, il passaggio dal modello biomedico a quello sociale, secondo cui i fattori contestuali, fattori esterni-ambientali e fattori interni-personali, costituivano delle componenti importanti del processo di handicap. La prospettiva sociale, infatti, muove dalla necessità di considerare che per garantire la partecipazione del soggetto con diversa abilità, non bisogna cambiare il soggetto stesso, quanto piuttosto l’accessibilità delle strutture e degli atteggiamenti.
    Tuttavia sia il modello biomedico che quello sociale risultano parziali, evidenziando dei limiti. Ecco che nel 1977 lo psichiatra americano George Engel sviluppò una nuova prospettiva, definita: “Modello Biopsicosociale”, in cui la salute viene valutata complessivamente secondo tre dimensioni: biologica, individuale e sociale.( sulla base della concezione multidimensionale della salute descritta nel 1947 dal WHO (World Health Organization)
    È in sostanza il passaggio da un approccio individuale ad uno socio-relazionale nello studio della disabilità. La disabilità viene intesa, infatti, come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, fattori personali e fattori ambientali, che rappresentano le circostanze in cui egli vive. Ne consegue che ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale.
    È su questa base che nel maggio del 2001 l’OMS ha pubblicato un nuovo manuale di classificazione: l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health). A differenza della precedente Classificazione ICIDH, l’ICF non è una classificazione delle "conseguenze delle malattie" ma delle "componenti della salute".
    In tal senso l’ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte le persone, proprio perché fornisce informazioni che descrivono il funzionamento umano e le sue restrizioni.
    Alla luce di quanto detto e riprendendo il pensiero di Pfeiffer, nessun modello singolo può totalmente spiegare la disabilità. Quelli che abbiamo riportato, infatti, costituiscono l’uno l’evoluzione del precedente. Un’ulteriore modello ritenuto valido per definire la disabilità è il “modello delle capability” formulato a metà degli anni Ottanta da Amartya Sen, professore di economia e filosofia ad Harvard insignito del Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Con l’espressione capabilities, il professor Sen intende la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. La conclusione a cui Sen perviene è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita.
    Patricia Welch e Lorella Terzi guardano alla disabilità utilizzando tale approccio; pertanto muovono da una considerazione di essa come ad una possibile fonte di limitazione delle capability dell’individuo, proponendosi di valutare l’impatto che essa ha sulla posizione reciproca degli individui all’interno dei contesti istituzionali e sociali in cui sono inseriti. Quando una menomazione restringe i funzionamenti di base di una persona, o quando l’ambiente non le permette di superare tali restrizioni, allora anche la sua capability di perseguire gli obiettivi che essa reputa di valore per
    la sua esistenza è compromessa. La società deve quindi intervenire per fare in modo che la persona sia in grado di perseguire tali obiettivi.
    Infine come sostiene Mitra l’approccio delle capability si costituisce come un tentativo di includere fattori di tipo economico tra le determinanti della disabilità. La domanda posta da Mitra è: “in che modo l’ambiente economico e le risorse disponibili possono influenzare direttamente l’essere o meno disabile di una persona?”.
    La questione di Mitra ci ha rimandato ad una lezione del corso “Politiche sociali per l’ inserimento del disabile”, durante la quale venne proposto il film “Si può fare”.
    Il film racconta la storia di un imprenditore Nello (interpretato da Claudio Bisio) che perdendo la propria prestigiosa posizione, si ritrova a dirigere una cooperativa di ex pazienti di ospedali psichiatrici, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, il direttore Nello, spinge ciascun socio della cooperativa a imparare un mestiere affinchè possa sottrarsi alle elemosine dell’assistenza.

    Dal film si evince l’importanza dell’ambiente economico, ed in particolare la possibilità per un soggetto con diversa abilità di ricevere uno stipendio mensile, tale da favorirgli la vera integrazione nella società.
    L’ambiente sociale, culturale ed economico sono centrali affinchè possa determinarsi il processo di integrazione e soprattutto affinchè il soggetto in primis non si senta, come negli anni addietro etichettata come “persona menomata” ma semplicemente come una persona alla pari degli altri.

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    Messaggio  8FEDERICADICARLUCCIO87 Ven Feb 03, 2012 1:17 pm

    L’ontologia della differenza nella relazione tras-formativa

    La differenza nella prospettiva della pedagogia sociale consente di inquadrare i nodi fondamentali del nostro tempo: privatizzazione, degrado ambientale, povertà nel mondo, terrorismo, crisi della democrazia e del welfare.
    Navigare nella semantica del termine differenza implica, in un’ottica analitica, il richiamo alla complessità.
    Obiettivo fondamentale dell’educazione è quello di aiutare le persone ad avere una visione complessiva delle conoscenze in modo tale da non creare disorientamento in merito alle scelte.
    Una prospettiva inclusiva ci aiuta ad organizzare i saperi collegando le singole parti al tutto; quindi il ruolo della cultura è quello di collocare le conoscenze in relazione alle molteplicità dei punti di vista, poiché il problema non è l’estensione della conoscenza, quanto la sua capacità di interconnessione.
    Perché la differenza?
    Perché ci aiuta a cogliere il cambiamento
    Per cogliere la struttura che connette la molteplicità all’unità
    Perché la formazione attraversa ed è attraversata dalla diversità, nel processo di costruzione del sapere e della persona, agisce nella cognizione come nell’emozione, nella razionalità come nella fede, passa anche attraverso quello spazio di non codificato.
    Perché un obiettivo formativo imprescindibile di questo nostro tempo caotico è la costruzione di una cittadinanza planetaria , che può sorgere solo sulle basi di identità soggettive e sociali multiple e consapevoli della loro complessa evoluzione.
    Perché l’istruzione e la formazione permanente non potranno che volgersi alla costruzione-analisi di ambienti e contesti multiculturali e multimediali, per soggetti che sappiano cogliere il valore epistemico e formativo della differenza, al fine di affrontare i problemi globali.
    Perché la differenza è la condizione della vita nei suoi aspetti biologici come in quelli sociali. diversi ecosistemi danno vita a forme di vita e culture diverse.
    Perché nelle relazioni interagenti e mutevoli si colloca il processo tras-formativo che ci appare assai simile al processo stesso della vita come della formazione in quanto le fonda entrambe.
    Un sistema vivente è un sistema che si trasforma, muta e si diversifica dagli altri. Si tratta di sfidare il virus della frammentarietà, della gerarchizzazione e del semplice accumulo di conoscenze, che crea disorientamento nella vita del soggetto.
    Quella della complessità è una “sfida”, come la definisce Morin, che implica il riconoscimento della differenza. Il funzionamento dei sistemi viventi, i processi d’apprendimento, le dinamiche dell’economia, rientrano all’interno di questo nuovo modo di pensare ed intendere la realtà e le evoluzioni che la definiscono. Sono tutti sistemi complessi che richiedono un nuovo modo di pensare che tiene conto della necessità di tracciare nuovi itinerari che non possono prescindere dall’incontro di visuali differenti, maturando la consapevolezza dell’identità plurima del soggetto, come dell’unità evolutiva dell’umanità. I riferimenti alla teoria della cognizione di Maturana e Varela rafforzano l’idea: un sistema vivente è sempre in relazione con il proprio ambiente e queste interazioni innescano cambiamenti continui. Ecco perché anche il processo della conoscenza è scambio continuo, autopoiesi, intesa come processo di autorinnovamento che presuppone, quindi, la differenza. La presuppone e la crea.
    Gli obiettivi di una pedagogia che si pensa attorno all’episteme della differenza rappresentano le basi di una democrazia cognitiva, e quindi tendono a conquistare l’autonomia da ogni forma di dipendenza e di soggezione delle minoranze e dei diversi; a rivendicare il diritto umanitario ampiamente disatteso anche da quei paesi che vi basano le proprie idealità identitarie; a maturare la consapevolezza sia della nostra individuale identità plurima, sia della sostanziale unità evolutiva dell’umanità.
    La globalizzazione ha portato la tendenza colonizzatrice della cultura occidentale, subordinando, incorporando e distruggendo le diversità. Le monoculture della mente generano modelli di produzione che distruggono la diversità e legittimano questa distruzione come progresso, crescita, miglioramento. Così si è depotenziata la tensione emancipativa della differenza, piegandola al principio gerarchico del valore economico. Negare il valore della differenza significa minacciare la vita stessa, la sua incessante tras-formazione, la democrazia, che si basa appunto sul diritto di scelta tra opzioni differenti.
    A questo fine la scuola e l’università dovrebbero aiutare a costruire narrazioni evolutive sulle differenze umane, culturali, religiose, storiche, biologiche, etc. , per leggere i problemi globali.
    Si tratta di educare una sensibilità “ad apprendere ad apprendere” per estendere strategie, contenuti e strumenti a campi e a situazioni altre, a “sapere di non sapere”, per cogliere i semi fecondi delle tante differenze e delle loro significazioni.




    Bibliografia:
    F.M. SIRIGNANO- La pedagogia della formazione, 2003
    Morin- La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, 2000

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    Messaggio  8FEDERICADICARLUCCIO87 Ven Feb 03, 2012 1:22 pm


    Siamo continuamente bombardati da trasmissioni, pubblicità, foto e addirittura giocattoli (barbie, winx ecc.) che ci mostrano immagini di modelle magrissime che vengono proposte come prototipo di bellezza. Questi modelli ci condizionano e orientano le nostre scelte quando andiamo a fare shopping, quando tagliamo i capelli, ma soprattutto quando mangiamo!! Dobbiamo apparire perfetti, sempre "belli" così come ci vuole la società. SI, perchè la nostra società ruota quasi tutta attorno all'immagine, che si configura come il primo elemento importante del nostro curriculum, la nostra cartolina di presentazione.
    Tutto l'insieme di questi fattori ci spinge inevitabilmente, e a volte anche inconsciamente, a fare ciò che le grandi società produttrici di beni di consumo vogliono: seguiamo LA MODA!!
    Siamo tutti (generalizzo ma ovviamente esistono delle eccezioni)ossessionati dalla dieta. Dopo le festività i giornali, le pubblicità, e la televisione iniziano campagne in cui ci dicono di correre subito ai ripari per perdere i chili presi durante le feste, per tornare in forma per l'estate!!
    Il problema è che la maggior parte delle immagini e dei modelli che noi subiamo passivamente ogni giorno sono FASULLI!! Sono frutto di artifici digitali che modificano l’immagine reale delle modelle rendendole sempre piu’ magre , sempre piu’ perfette, quasi dei CYBORG. Allora capita che molti ragazzi e ragazze si lasciano ingannare e, nel tentativo di raggiungere quei modelli di perfezione, arrivano ad ammalarsi, smettono di mangiare, e non riuscendo nel loro intento iniziano a pensare che la loro vita non abbia piu’ senso… allora si lasciano morire lentamente…
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    Messaggio  mariastefaniadifiore Ven Feb 03, 2012 2:00 pm

    Il mio gruppo è composto da:
    Ermelinda Di Girolamo
    Maria Stefania Di Fiore
    Concetta Di Febbraio
    TRATTO DA: SEMANTICA DELLA DIFFERENZA.
    L’ONTOLOGIA DELLA DIFFERENZA NELLA RELAZIONE TRAS-FORMATIVA.
    Premettiamo che l’analisi di questo primo capitolo del testo “Semantica della differenza” ha richiesto una lettura molto approfondita ed attenta, data la complessità e l’ampiezza del discorso affrontato.
    Speriamo di essere riuscite a fornirne una lettura critica ed esaustiva.

    Il titolo del saggio comprende un significato della parola differenza più ampio di quanto possiamo credere.
    Cosa significa differenza?
    Se ne cerchiamo il significato su un qualsiasi dizionario, ci troviamo di fronte ad una definizione simile:
    “Distinzione tra enti appartenenti a una stessa categoria concettuale, che può comportare la specificazione dell'aspetto per cui differiscono tra di loro […] espressione enfatica con cui si sottolinea la profonda diversità tra due persone o cose”
    Si tratta dunque di quel principio che ammette, per ogni uomo ed ogni cosa, l’esistenza di “versioni diverse”.
    Proprio l’esplorazione del significato della parola “differenza”, ma nella prospettiva della Pedagogia Sociale, ci consente di inquadrare i nodi fondamentali del nostro tempo e di coglierne le implicazioni progettuali anche in senso formativo.
    E’ necessario però capire prima come sia concepita la differenza nella nostra società.
    In realtà quello di differenza, pur essendo il motore del mondo, ciò che lo rende bello e vario, è un principio che si concilia male con la società attuale, con la sua cultura, ma soprattutto con un’economia capitalistica che ha ormai assoggettato ogni aspetto della nostra vita alle leggi di mercato.
    Essere diversi infatti è normale, eppure spesso il confine tra la consapevolezza di essere tutti diversi e l’essere considerati o sentirsi “differenti” viene superato, determinando così una moltitudine di emergenze sociali, legate a fenomeni d’esclusione culturale, sociale, biologica ed estetica. Questo perché negli ultimi anni si è andati incontro a forti e significative trasformazioni sociali, inimmaginabili fino a vent’anni fa. Anche nel settore educativo i problemi della differenza e della diversità, i contrasti di genere e di etnia, non erano così evidenti come oggi.
    Sebbene la pluralità sia una delle caratteristiche della contemporaneità, viviamo in una società che si approccia con non poche difficoltà e pregiudizi alle diversità.
    In realtà si tratta di un problema culturale che impedisce di cogliere la realtà per quello che è: continuo mutamento, e che può essere risolto solo attraverso una rivoluzione dei canali della formazione.
    Il rifiuto della diversità, in tutte le sue forme, ha alla sua radice soprattutto lo stereotipo e il pregiudizio, che nascono da una cultura “omologante” dove ognuno è apparentemente “libero” di comperare o di fare ciò che vuole, ma in realtà si tratta di scelte già prestabilite, guidate dall’esigenza di non essere esclusi. Ciò spinge gli individui a ricercare la propria identità in un modello di riferimento unico, per cui tutti acquistano l’ultimo modello di telefono cellulare, tutti acquistano gli stessi vestiti ecc..
    Dunque il problema di fondo che oggi riguarda il campo della formazione, non è più tanto l’estensione del conoscere, quanto la sua capacità di interconnessione. Si tratta di un sapere che deve darci gli strumenti per interpretare il presente ed affrontare le sue incertezze; una formazione che ci aiuti a superare gli ostacoli che la società del consumismo e della tecnologia ci pongono davanti (dipendenza, soggezione ecc.), rendendoci così consapevoli della moltitudine di identità che si nasconde dentro ognuno di noi,una vera e propria “scienza della coscienza” che può insegnarci un valore importante: quello della solidarietà.
    Solo con una formazione che lasci spazio alle capacità generative e creative, caratteristiche dei viventi, sarà possibile superare quella concezione meccanicistica dell’azienda che ancora permea la nostra società, e che si configura come uno dei principali ostacoli ad un cambiamento pedagogico e sociale che lasci finalmente spazio all’adattamento flessibile, all’apprendimento e all’evoluzione.
    In questa prospettiva la formazione deve essere vista come tras-formazione dell’individuo, attraverso un approccio inclusivo e integrato che tenga conto che l’uomo è un essere bio-psico-spirituale, e che ognuno segue un percorso di vita diverso da quello dei suoi simili.
    Un percorso formativo che esclude una o più di queste dimensioni, fornirà una visione parziale e incompleta della realtà. Includerle significa invece coltivare un livello di presenza nel qui-e-ora che è il portale di accesso per l’espansione del nostro livello di consapevolezza.
    E’ lo stesso concetto di formazione che ci orienta in questo senso. Infatti il significato del termine deriva da formare da cui dare una forma.
    La formazione richiede del tempo tecnico, tempo che necessita per "formare", per assimilare e per comprendere. La formazione infatti non è un insieme di nozioni contenute in un cassetto ma al contrario è il risultato di un piano formativo organico che tende a strutturare, solidificare e rinforzare in maniera completa la personalità dell’individuo. E’ proprio a partire dal recupero della soggettività che sarà possibile avviare un nuovo processo di socializzazione.




    Riferimenti bibliografici:
    A cura di Anita Gramigna, Semantica della differenza
    Lidia Fassio, Teoria generale dei sistemi
    Duccio Demetrio, La pedagogia sociale ed i suoi elementi
    Paul F. Dell, Bateson e Maturana: verso una fondazione biologica delle scienze sociali. Articolo pubblicato su «Terapia familiare», N. 21 Luglio 1986, p.35-60



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    Messaggio  di febbraio concetta Ven Feb 03, 2012 2:04 pm

    Il nuovo millennio potrebbe essere denominato "l'ètà della tecnologia"infatti negli ultimi decenni del 900 e il secolo XXI, sono ricchi di trasformazioni che pongono l'uomo in una situazione sempre più chiara,dove può conoscere se stesso e il mondo che lo circonda. Sicuramente la tecnologia agevola in molti campi,rendendo la vita dell'uomo più semplice e meno faticosa ma al contempo essa non solo sta modificando il corpo umano ma anche le azioni che svolge quotidianamente. Quando riflettiamo sui complessi rapporti tra uomo e tecnologia facciamo spesso l'idea che i due termini siano entità distinte e separate, invece va ricordato che tra uomo e tecnologia non esiste distinzione netta, perché da sempre la tecnologia concorre a formare l'essenza dell'uomo: infatti così come l'uomo fa la tecnologia così la tecnologia fa l'uomo. Per questo si può parlare di ibridazione che è intesa come trasformazione che determina un cambiamento in un individuo. Ibrido è un individuo generato dall’incrocio di due organismi differenti da più caratteri. Si può avere per esempio un ibrido tecnologico quando vi è contaminazione tra naturale e artificiale in quanto oggi rispetto alle tecnologie del passato,è presente una caratteristica nuova: i due elementi naturale(il corpo)e artificiale( l’oggetto tecnologico)si contaminano a vicenda. Avviene tutto ciò perché oggi la tecnologia consiste per esempio nell’impiantare microchip telefonici nel corpo umano fino a renderli invisibili e questo rapporto è molto ampio perché la tecnologia si avvicina a tal punto all’uomo, al suo corpo, alle sue capacità sensoriali e cognitive da scomparire, da diventare invisibile, mutando radicalmente la natura del rapporto tra uomo e artefatti tra soggetto e oggetto. Quando l’uomo diventa una sola cosa con l’elaboratore elettronico si parla di cyber organo. Questo rapporto però viene preso in esame attraverso il legame tra corpo,disabilità e tecnologia,tematiche che sono osservate nell’ambito degli orizzonti multimediali della formazione. La prof Briganti per questo nel suo libro : “Corpo, tecnologie e disabilità” ci propone tre tipi di tecnologie: integrative, estensive e invasive. Non mi soffermerò su dei casi in particolare perché già ne ho parlato precedentemente, non perché non sono importanti, semplicemente per dare più importanza alla teoria che ancora non avevo accennato. La tecnologia INTEGRATIVA è intesa come integrazione del corpo (un esempio nel campo della disabilità sono le protesi per lo sport), come miglioramento (cioè le protesi estetiche), come potenziamento e come sostegno. Le tecnologie integrative sono usate come un completamento di un organo o una parte del corpo mancante e nel campo della disabilità la tecnologia si presenta sottoforma di protesi come integrazione di una menomazione. La tecnologia integrativa secondo Naief Yehya va intesa però anche come potenziamento, come le tecnologie bioniche, in particolare le protesi organiche che consistono nell'inserimento di dispositivi e strumenti di controllo meccanico ed elettrici nel corpo destinati a riparare e migliorare il nostro fisico. Le tecnologie ESTENSIVE sono intese come ampliamento del corpo. Con l’avvento delle tecnologie estensive si è venuto a formare ciò che MCLUHAN definisce “villaggio globale. Inoltre con l’avvento di internet e del mondo virtuale si parla di AVATAR, un alter-ego ideato dall’uomo, composto da sola virtualità. Tra le tipologie di estensioni corpo/tecnologie una deriva rappresenta il fenomeno della NET ADDICTION, ossia la dipendenza dal net, per cui il corpo si sente diviso in avatar e reale. Nel testo di Granelli, Il sé digitale, l’autore,senza intrecciarsi con le disabilità,ricollega il tentativo di provvedere a superare i limiti dell’uomo con le nuove tecnologie viste come estensioni delle potenzialità umane. CARONIA ritiene che è possibile avere un doppio corpo “on line”: uno fisico e uno virtuale, il quale finisce per essere disseminato, senza più centro che modifica il rapporto tra corpo e identità. GRANELLI si interroga sulla possibilità che l’estensione della tecnologia possa sconfinare in aspetti negativi “la tecnologia potenzia o atrofizza le capacità dell’uomo?”. Egli appoggia il pensiero di GALIMBERTI il quale sostiene che la tecnica è “l’essenza dell’uomo”, affermando che “la tecnologia nasce per potenziare le capacità umane o per rendere meno problematici i suoi limiti”. Continuando nella sua analisi egli però arriva a considerare come il discorso si complichi quando le capacità che vengono potenziate non sono solo corporali, ma anche mentali: in questi casi l’espansione di una funzionalità può portare all’atrofizzazione di un’altra. Inoltre queste tecnologie portano allo sdoppiamento “digitale” con la nascita del “digital self”. Importante è anche il testo Il corpo tecnologico di Capucci. Capucci si interroga sullo statuto del corpo in relazione a una realtà antropocentrica generata dalle tecnologie, sull'impatto degli artefatti tecnologici e della 'nuova natura' che contribuiscono a generare. Il corpo, nella sua totalità fisica, psicologica, biologica, è investito da questo processo tecnologico. La riflessione è rivolta allo sviluppo tecnologico inteso come una sorta di ‘acceleratore evolutivo’ che comporta in primo luogo una ridefinizione del rapporto tra uomo e mondo: tra corpo e spazio esterno. Parliamo quindi anche di TECNOLOGIE INVASIVE: ossia quelle che invadono il corpo. CAPUCCI ha parlato delle "inadeguatezze" che vengono compensate mediante la tecnologia, l'uomo si lascia invadere positivamente e piacevolmente da essa.Le tecnologie raccontano di questo nuovo individuo che è CYBORG, un essere mezzo uomo e mezzo tecnologia. “Cyborg” significa “organismo cibernetico”; la CIBERNETICA è una scienza che ha l’obiettivo di creare macchine artificiali che abbiano le stesse prestazioni del livello umano. CARONIA parla di computer come cyborg pensando ad un cyber-organo, quando cioè l’uomo diventa una sola cosa con l’impianto elettronico (Avatar)



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    Messaggio  Francesca Pelella Ven Feb 03, 2012 2:52 pm

    Gruppo formato da: Amitrano Rossana, De Prisco Rita,Di Carluccio Federica, Pelella Francesca

    L’ontologia della differenza nella relazione tras-formativa

    La differenza nella prospettiva della pedagogia sociale consente di inquadrare i nodi fondamentali del nostro tempo: privatizzazione, degrado ambientale, povertà nel mondo, terrorismo, crisi della democrazia e del welfare.
    Navigare nella semantica del termine differenza implica, in un’ottica analitica, il richiamo alla complessità.
    Obiettivo fondamentale dell’educazione è quello di aiutare le persone ad avere una visione complessiva delle conoscenze in modo tale da non creare disorientamento in merito alle scelte.
    Una prospettiva inclusiva ci aiuta ad organizzare i saperi collegando le singole parti al tutto; quindi il ruolo della cultura è quello di collocare le conoscenze in relazione alle molteplicità dei punti di vista, poiché il problema non è l’estensione della conoscenza, quanto la sua capacità di interconnessione.
    Perché la differenza?
    Perché ci aiuta a cogliere il cambiamento
    Per cogliere la struttura che connette la molteplicità all’unità
    Perché la formazione attraversa ed è attraversata dalla diversità, nel processo di costruzione del sapere e della persona, agisce nella cognizione come nell’emozione, nella razionalità come nella fede, passa anche attraverso quello spazio di non codificato.
    Perché un obiettivo formativo imprescindibile di questo nostro tempo caotico è la costruzione di una cittadinanza planetaria , che può sorgere solo sulle basi di identità soggettive e sociali multiple e consapevoli della loro complessa evoluzione.
    Perché l’istruzione e la formazione permanente non potranno che volgersi alla costruzione-analisi di ambienti e contesti multiculturali e multimediali, per soggetti che sappiano cogliere il valore epistemico e formativo della differenza, al fine di affrontare i problemi globali.
    Perché la differenza è la condizione della vita nei suoi aspetti biologici come in quelli sociali. diversi ecosistemi danno vita a forme di vita e culture diverse.
    Perché nelle relazioni interagenti e mutevoli si colloca il processo tras-formativo che ci appare assai simile al processo stesso della vita come della formazione in quanto le fonda entrambe.
    Un sistema vivente è un sistema che si trasforma, muta e si diversifica dagli altri. Si tratta di sfidare il virus della frammentarietà, della gerarchizzazione e del semplice accumulo di conoscenze, che crea disorientamento nella vita del soggetto.
    Quella della complessità è una “sfida”, come la definisce Morin, che implica il riconoscimento della differenza. Il funzionamento dei sistemi viventi, i processi d’apprendimento, le dinamiche dell’economia, rientrano all’interno di questo nuovo modo di pensare ed intendere la realtà e le evoluzioni che la definiscono. Sono tutti sistemi complessi che richiedono un nuovo modo di pensare che tiene conto della necessità di tracciare nuovi itinerari che non possono prescindere dall’incontro di visuali differenti, maturando la consapevolezza dell’identità plurima del soggetto, come dell’unità evolutiva dell’umanità. I riferimenti alla teoria della cognizione di Maturana e Varela rafforzano l’idea: un sistema vivente è sempre in relazione con il proprio ambiente e queste interazioni innescano cambiamenti continui. Ecco perché anche il processo della conoscenza è scambio continuo, autopoiesi, intesa come processo di autorinnovamento che presuppone, quindi, la differenza. La presuppone e la crea.
    Gli obiettivi di una pedagogia che si pensa attorno all’episteme della differenza rappresentano le basi di una democrazia cognitiva, e quindi tendono a conquistare l’autonomia da ogni forma di dipendenza e di soggezione delle minoranze e dei diversi; a rivendicare il diritto umanitario ampiamente disatteso anche da quei paesi che vi basano le proprie idealità identitarie; a maturare la consapevolezza sia della nostra individuale identità plurima, sia della sostanziale unità evolutiva dell’umanità.
    La globalizzazione ha portato la tendenza colonizzatrice della cultura occidentale, subordinando, incorporando e distruggendo le diversità. Le monoculture della mente generano modelli di produzione che distruggono la diversità e legittimano questa distruzione come progresso, crescita, miglioramento. Così si è depotenziata la tensione emancipativa della differenza, piegandola al principio gerarchico del valore economico. Negare il valore della differenza significa minacciare la vita stessa, la sua incessante tras-formazione, la democrazia, che si basa appunto sul diritto di scelta tra opzioni differenti.
    A questo fine la scuola e l’università dovrebbero aiutare a costruire narrazioni evolutive sulle differenze umane, culturali, religiose, storiche, biologiche, etc. , per leggere i problemi globali.
    Si tratta di educare una sensibilità “ad apprendere ad apprendere” per estendere strategie, contenuti e strumenti a campi e a situazioni altre, a “sapere di non sapere”, per cogliere i semi fecondi delle tante differenze e delle loro significazioni.




    Bibliografia:
    F.M. SIRIGNANO- La pedagogia della formazione, 2003

    Morin- La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, 2000

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    Messaggio  luisa buono Ven Feb 03, 2012 4:40 pm

    Ben-essere Disabili
    Uno sguardo oltre...la disabilità!
    Gruppo: Luisa Buono, Serena Gaeta.


    Oggi, nel ventunesimo secolo, la disabilità è considerata ancora come una forma di “discriminazione” ed è proprio per questo che si avverte il bisogno di aggiornare il paradigma della disabilità e di creare un approccio che cancelli l’idea del disabile come persona “inabile a fare qualcosa”. Diversi sono i modelli che hanno cercato di spiegare la disabilità in un’ utile prospettiva in un dato contesto: il modello biomedico, il modello sociale e il modello biopsicosociale.Il modello medico considera la disabilità come un problema dell’individuo che è direttamente causato dalla malattia o altre condiziono di salute che richiedono cure mediche in forma di trattamento o riabilitazione, quindi le persone sono considerate disabili sulla base delle loro incapacità a funzionare come persona “normale”. Il modello dell’ ICIDH è stato fortemente criticato da un punto di vista prettamente sociologico in quanto il focus del cambiamento rimane la persona piuttosto che l’ambiente. Con il modello sociale questa prospettiva cambia; infatti la disabilità viene vista come un problema non solo del singolo ma della società; la disabilità è creata dall’ ambiente sociale. Esistono modelli che hanno esteso o integrato il modello medico e/o sociale, un esempio è il modello della limitazione funzionale (NAGI). Questo modello ha origine nei primi anni Sessanta e Nagi costruì una struttura che differenziava quattro fenomeni distinti ma interrelati che egli considera alla base del campo della riabilitazione che sono: patologia attiva, menomazione, limitazione funzionale e disabilità. Per Nagi la disabilità “è una limitazione nell’impegnarsi in ruolo o compiti socialmente definiti all’interno di un preciso contesto socioculturale”. Nel 1977 la psichiatra Engel sviluppò il modello Biopsicosociale e infatti dalla parola stessa possiamo capire che la diagnosi medica deve tener conto dell’interazione di tre aspetti: biologici, psicologici e sociali. Quindi la persona disabile per integrarsi e affermare il proprio sé viene posta al centro della sua famiglia, delle istituzioni pubbliche e privante affinché si attui una pratica “integrativa” ma soprattutto “inclusiva”, quindi offrire pari opportunità. Zani e Cicognani invece hanno affermato quanto sia importante il concetto di empowerment, cioè il ruolo attivo che la persona disabile deve possedere per gestire la propria salute e il proprio controllo. Proprio in questa prospettiva nel maggio 2001 l’OMS ha pubblicato la "Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità", l’ICF, riconosciuto da 191 Paesi come il nuovo strumento per descrivere e misurare la salute e la disabilità delle popolazioni.
    La Classificazione ICF rappresenta un’autentica rivoluzione nella definizione e quindi nella percezione di salute e disabilità, i nuovi principi evidenziano l’importanza di un approccio integrato, che tenga conto dei fattori ambientali, classificandoli in maniera sistematica.
    Il nuovo approccio permette la correlazione fra stato di salute e ambiente arrivando così alla definizione di disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. L’approccio olistico e sicuramente più interessante è il Capability Approch sviluppato da A.M. Sen che pone l’attenzione sul Ben-essere delle persone disabili e sull’importanza delle capabilities cioè le opportunità di un individuo di avere accesso a certi functionings. Cioè che è importane per quest’approccio la capacità di scegliere e raggiungere quello che interessa nella vita di una persona al di à della menomazione o disabilità.
    Ciò che manca nel contesto sociale è senza dubbio l’abitudine ad interagire con i disabili. Si è sempre portati a vedere ciò che non sanno fare piuttosto che enfatizzare le proprie attitudini, sembra infatti non essere tanto lontani dai tempi di Sparta. Allora venivano gettati dalla rupe, oggi se si prova a dire ad un genitore che suo figlio “ha bisogno di un aiuto”, si rischia di sentirsi insultati con epiteti vari, dando la colpa a chiunque pur di non ammettere che il proprio figlio ha bisogno di sostegno. Sostegno che con questi parametri non solo sarà assente in termini scolastici, ma anche in termini familiari. Alla scuola per fortuna o sfortuna, tocca “l’iniziazione del bambino” ed è compito dell’insegnante più di chiunque altro, dare al bambino la giusta consapevolezza nei proprio mezzi e dare al resto della classe la capacità di comprendere che quel bambino è dotato di un potenziale e di un punto debole, ma che ognuno di noi è dotato delle stesse caratteristiche. La classe di oggi è la società del domani ed è da lì che tutto parte.

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    Messaggio  serenagaeta Ven Feb 03, 2012 4:41 pm

    Ben-essere Disabili
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    Oggi, nel ventunesimo secolo, la disabilità è considerata ancora come una forma di “discriminazione” ed è proprio per questo che si avverte il bisogno di aggiornare il paradigma della disabilità e di creare un approccio che cancelli l’idea del disabile come persona “inabile a fare qualcosa”. Diversi sono i modelli che hanno cercato di spiegare la disabilità in un’ utile prospettiva in un dato contesto: il modello biomedico, il modello sociale e il modello biopsicosociale.Il modello medico considera la disabilità come un problema dell’individuo che è direttamente causato dalla malattia o altre condiziono di salute che richiedono cure mediche in forma di trattamento o riabilitazione, quindi le persone sono considerate disabili sulla base delle loro incapacità a funzionare come persona “normale”. Il modello dell’ ICIDH è stato fortemente criticato da un punto di vista prettamente sociologico in quanto il focus del cambiamento rimane la persona piuttosto che l’ambiente. Con il modello sociale questa prospettiva cambia; infatti la disabilità viene vista come un problema non solo del singolo ma della società; la disabilità è creata dall’ ambiente sociale. Esistono modelli che hanno esteso o integrato il modello medico e/o sociale, un esempio è il modello della limitazione funzionale (NAGI). Questo modello ha origine nei primi anni Sessanta e Nagi costruì una struttura che differenziava quattro fenomeni distinti ma interrelati che egli considera alla base del campo della riabilitazione che sono: patologia attiva, menomazione, limitazione funzionale e disabilità. Per Nagi la disabilità “è una limitazione nell’impegnarsi in ruolo o compiti socialmente definiti all’interno di un preciso contesto socioculturale”. Nel 1977 la psichiatra Engel sviluppò il modello Biopsicosociale e infatti dalla parola stessa possiamo capire che la diagnosi medica deve tener conto dell’interazione di tre aspetti: biologici, psicologici e sociali. Quindi la persona disabile per integrarsi e affermare il proprio sé viene posta al centro della sua famiglia, delle istituzioni pubbliche e privante affinché si attui una pratica “integrativa” ma soprattutto “inclusiva”, quindi offrire pari opportunità. Zani e Cicognani invece hanno affermato quanto sia importante il concetto di empowerment, cioè il ruolo attivo che la persona disabile deve possedere per gestire la propria salute e il proprio controllo. Proprio in questa prospettiva nel maggio 2001 l’OMS ha pubblicato la "Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità", l’ICF, riconosciuto da 191 Paesi come il nuovo strumento per descrivere e misurare la salute e la disabilità delle popolazioni.
    La Classificazione ICF rappresenta un’autentica rivoluzione nella definizione e quindi nella percezione di salute e disabilità, i nuovi principi evidenziano l’importanza di un approccio integrato, che tenga conto dei fattori ambientali, classificandoli in maniera sistematica.
    Il nuovo approccio permette la correlazione fra stato di salute e ambiente arrivando così alla definizione di disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. L’approccio olistico e sicuramente più interessante è il Capability Approch sviluppato da A.M. Sen che pone l’attenzione sul Ben-essere delle persone disabili e sull’importanza delle capabilities cioè le opportunità di un individuo di avere accesso a certi functionings. Cioè che è importane per quest’approccio la capacità di scegliere e raggiungere quello che interessa nella vita di una persona al di à della menomazione o disabilità.
    Ciò che manca nel contesto sociale è senza dubbio l’abitudine ad interagire con i disabili. Si è sempre portati a vedere ciò che non sanno fare piuttosto che enfatizzare le proprie attitudini, sembra infatti non essere tanto lontani dai tempi di Sparta. Allora venivano gettati dalla rupe, oggi se si prova a dire ad un genitore che suo figlio “ha bisogno di un aiuto”, si rischia di sentirsi insultati con epiteti vari, dando la colpa a chiunque pur di non ammettere che il proprio figlio ha bisogno di sostegno. Sostegno che con questi parametri non solo sarà assente in termini scolastici, ma anche in termini familiari. Alla scuola per fortuna o sfortuna, tocca “l’iniziazione del bambino” ed è compito dell’insegnante più di chiunque altro, dare al bambino la giusta consapevolezza nei proprio mezzi e dare al resto della classe la capacità di comprendere che quel bambino è dotato di un potenziale e di un punto debole, ma che ognuno di noi è dotato delle stesse caratteristiche. La classe di oggi è la società del domani ed è da lì che tutto parte.

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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty INDIVIDUALIZZAZIONE, EDUCAZIONE SPECIALE ED INCLUSIONE I TRE PILASTRI DELLA SCUOLA MODERNA

    Messaggio  lauraonorato88 Ven Feb 03, 2012 5:30 pm

    INDIVIDUALIZZAZIONE, EDUCAZIONE SPECIALE ED INCLUSIONE
    I TRE PILASTRI DELLA SCUOLA MODERNA.
    Nel quadro dell’attuale cultura sociale, la riflessione in campo pedagogico, relativa alla persona disabile, sta portando ad una nuova concezione dei suoi diritti umani, civili e sociali, al fine di un suo adeguato riconoscimento e presenza in tutte le istituzioni, scuola in particolare.
    Ormai da tempo politici, sociologi e pedagogisti lavorano nella prospettiva della piena tutela e legittimazione sociale del disabile, nel senso del pieno sviluppo della sua realtà personale e nel rispetto della diversità che è principio di valore.
    La scuola e gli insegnanti sono chiamati oggi giorno a costruire una cultura non più dell’omologazione ma delle differenze ed è importante pensare alle differenze non in rapporto ad una condizione fisica di svantaggio certificata ma nella prospettiva delle abilità differenti (Fornasa W.,Medeghini R.,2003)
    Assumere le abilità differenti come uno dei dati culturali della Pedagogia speciale implica, dunque, un superamento dell’omogenizzazione formativa che fonda la sua azione sul principio di uguaglianza delle opportunità: infatti pensare di rispondere alle differenze attraverso le stesse opportunità in entrata e le stesse possibilità di formazione risulta inadeguato per i bisogni formativi in quanto si risponde alla presenza di pluralità con criteri di omogeneità. Per uscire da questa contraddizione è importante proporre la pluralizzazione dei percorsi e delle modalità individuali, assumendo le differenze come condizione fondamentale per l’educazione educativa e di insegnamento.( Medeghini R.,2006)
    Il problema principale, dunque, per la scuola è quello di costruire e assumere culturalmente le differenze per poi ricercare tutte quelle condizioni e quegli adattamenti che permettono alle differenze, anche di apprendimento, di trovare accoglienza, cura ed espressione garantendo davvero l’uguaglianza delle opportunità nel processo della formazione.
    La cultura della differenza nel mondo scolastico abbraccia perfettamente l’idea della necessità di realizzare un tipo di educazione speciale,inclusiva e altamente individualizzata per ciascun alunno.
    Oggi all’interno dell’istituzione scolastica non si parla più di bisogni pedagogici particolari ma si afferma la necessità di promuovere un tipo di educazione inclusiva e per tutti ( J. Hollenweger Haskell,2003)
    Ma chiediamoci ora cosa si intende per educazione inclusiva per tutti?
    Per rispondere a tale domanda mi è necessario fare riferimento al libro Ben-essere disabili nel quale a chiare lettere viene definita l’educazione inclusiva come “un processo che comprende la trasformazione di scuole e altri centri di apprendimento per andare incontro alle esigenze di tutti i bambini, studenti appartenenti a minoranze etniche e linguistiche, popolazioni rurali, bambini affetti da HIV e AIDS, e bambini con disabilità e difficoltà nell’apprendimento e a fornire opportunità di apprendimento per tutti i giovani e anche gli adulti. Essa mira ad eliminare l’esclusione che è una conseguenza di atteggiamenti negativi e di una mancanza di risposta alla diversità per etnia,status economico, classe sociale,lingua, religione, genere, orientamento sessuale e abilità”.
    L’educazione dunque deve essere vista non come un privilegio per pochi ma come un diritto per tutti. Alla luce di quanto detto nasce spontanea un’ ulteriore e conclusiva domanda: come può essere promossa l’educazione inclusiva all’interno della scuola? La risposta è semplice organizzando al suo interno tutte le risorse necessarie per la promozione di un nuovo tipo di didattica inclusiva secondo il principio della “speciale normalità” (D. Ianes 2007)
    Un’offerta didattica individualizzata cerca di adattarsi ai bisogni di una singola persona, riconoscendoli e modificando le varie strategie di insegnamento-apprendimento per riuscire a portare il singolo alunno più vicino possibile agli obiettivi comuni al gruppo di appartenenza, alla sua classe o al corso di studi. In questo modo si cerca di far raggiungere un fine,un traguardo comune anche con mezzi e percorsi molto diversi e molto individualizzati.



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    Messaggio  robertamaddaloni Ven Feb 03, 2012 5:59 pm

    Capitolo 3: Uno sguardo oltre... la disabilità


    Riflettendo sul tema della disabilità e ponendolo in relazione ai nostri studi universitari, abbiamo considerato che nel corso del Novecento numerosi sono stati i cambiamenti in merito. Anzitutto vorremmo ricordare che prima di parlare di soggetti con diversa abilità o disabili, questi venivano denominati minorati, soggetti speciali, intendendo con questi termini rispettivamente soggetti con menomazioni e soggetti al di fuori dell’ordinario, che, in quanto tali, dovevano essere trattati in maniera differente dai soggetti normali. Solo negli anni ’70 fu introdotto il termine handicap.
    Questa parentesi è necessaria per effettuare un passaggio dalla persona diversamente abile, alla diversità, che allo stesso modo nel corso del secolo scorso ha conosciuto diverse definizioni e modelli di riferimento.
    A questo punto, ci sembra dovuto e necessario, affrontare l’evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel tempo; analizzeremo quindi il modello biomedico, quello sociale ed infine il modello biopsicosociale.
    Il modello medico della disabilità la definisce come un impedimento biologico permanente e considera gli individui con disabilità come meno abili rispetto a quelli che sono guariti da una malattia o che sono non disabili. Le persone disabili sono considerate come “anormali”, di conseguenza la disabilità è come una deviazione dalla normalità e dalla norma (anche se a nostro avviso il concetto stesso di normalità è un prodotto culturale). Il modello medico viene associato all’ ICDH (International Classification of Impairment Disability and Handicap. Il concetto fondamentale dell’ICIDH è basato sulla sequenza:
    Malattia -> Menomazione -> Disabilità -> Handicap.
    Questo schema portava però ad una errata interpretazione dei rapporti intercorrenti tra ciò che veniva classificato nei tre ambiti come conseguenza della malattia, in quanto le frecce, evidenziandone un nesso causale, sembravano voler presentare una situazione che necessariamente evolveva nel tempo in una determinata maniera.
    Da queste considerazioni emerge, pertanto, che l’approccio medico induce ad una medicalizzazione ed individualizzazione della disabilità senza considerare variabili di tipo ambientali o sociali. Si segna così, tra gli anni Settanta/Ottanta, il passaggio dal modello biomedico a quello sociale, secondo cui i fattori contestuali, fattori esterni-ambientali e fattori interni-personali, costituivano delle componenti importanti del processo di handicap. La prospettiva sociale, infatti, muove dalla necessità di considerare che per garantire la partecipazione del soggetto con diversa abilità, non bisogna cambiare il soggetto stesso, quanto piuttosto l’accessibilità delle strutture e degli atteggiamenti.
    Tuttavia sia il modello biomedico che quello sociale risultano parziali, evidenziando dei limiti. Ecco che nel 1977 lo psichiatra americano George Engel sviluppò una nuova prospettiva, definita: “Modello Biopsicosociale”, in cui la salute viene valutata complessivamente secondo tre dimensioni: biologica, individuale e sociale.( sulla base della concezione multidimensionale della salute descritta nel 1947 dal WHO (World Health Organization)
    È in sostanza il passaggio da un approccio individuale ad uno socio-relazionale nello studio della disabilità. La disabilità viene intesa, infatti, come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, fattori personali e fattori ambientali, che rappresentano le circostanze in cui egli vive. Ne consegue che ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale.
    È su questa base che nel maggio del 2001 l’OMS ha pubblicato un nuovo manuale di classificazione: l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health). A differenza della precedente Classificazione ICIDH, l’ICF non è una classificazione delle "conseguenze delle malattie" ma delle "componenti della salute".
    In tal senso l’ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte le persone, proprio perché fornisce informazioni che descrivono il funzionamento umano e le sue restrizioni.
    Alla luce di quanto detto e riprendendo il pensiero di Pfeiffer, nessun modello singolo può totalmente spiegare la disabilità. Quelli che abbiamo riportato, infatti, costituiscono l’uno l’evoluzione del precedente. Un’ulteriore modello ritenuto valido per definire la disabilità è il “modello delle capability” formulato a metà degli anni Ottanta da Amartya Sen, professore di economia e filosofia ad Harvard insignito del Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Con l’espressione capabilities, il professor Sen intende la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. La conclusione a cui Sen perviene è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita.
    Patricia Welch e Lorella Terzi guardano alla disabilità utilizzando tale approccio; pertanto muovono da una considerazione di essa come ad una possibile fonte di limitazione delle capability dell’individuo, proponendosi di valutare l’impatto che essa ha sulla posizione reciproca degli individui all’interno dei contesti istituzionali e sociali in cui sono inseriti. Quando una menomazione restringe i funzionamenti di base di una persona, o quando l’ambiente non le permette di superare tali restrizioni, allora anche la sua capability di perseguire gli obiettivi che essa reputa di valore per
    la sua esistenza è compromessa. La società deve quindi intervenire per fare in modo che la persona sia in grado di perseguire tali obiettivi.
    Infine come sostiene Mitra l’approccio delle capability si costituisce come un tentativo di includere fattori di tipo economico tra le determinanti della disabilità. La domanda posta da Mitra è: “in che modo l’ambiente economico e le risorse disponibili possono influenzare direttamente l’essere o meno disabile di una persona?”.
    La questione di Mitra ci ha rimandato ad una lezione del corso “Politiche sociali per l’ inserimento del disabile”, durante la quale venne proposto il film “Si può fare”.
    Il film racconta la storia di un imprenditore Nello (interpretato da Claudio Bisio) che perdendo la propria prestigiosa posizione, si ritrova a dirigere una cooperativa di ex pazienti di ospedali psichiatrici, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, il direttore Nello, spinge ciascun socio della cooperativa a imparare un mestiere affinchè possa sottrarsi alle elemosine dell’assistenza.

    Dal film si evince l’importanza dell’ambiente economico, ed in particolare la possibilità per un soggetto con diversa abilità di ricevere uno stipendio mensile, tale da favorirgli la vera integrazione nella società.
    L’ambiente sociale, culturale ed economico sono centrali affinchè possa determinarsi il processo di integrazione e soprattutto affinchè il soggetto in primis non si senta, come negli anni addietro etichettata come “persona menomata” ma semplicemente come una persona alla pari degli altri.

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    Messaggio  Lamberti Simona Giuseppa Ven Feb 03, 2012 5:59 pm

    Capitolo 3: Uno sguardo oltre... la disabilità


    Riflettendo sul tema della disabilità e ponendolo in relazione ai nostri studi universitari, abbiamo considerato che nel corso del Novecento numerosi sono stati i cambiamenti in merito. Anzitutto vorremmo ricordare che prima di parlare di soggetti con diversa abilità o disabili, questi venivano denominati minorati, soggetti speciali, intendendo con questi termini rispettivamente soggetti con menomazioni e soggetti al di fuori dell’ordinario, che, in quanto tali, dovevano essere trattati in maniera differente dai soggetti normali. Solo negli anni ’70 fu introdotto il termine handicap.
    Questa parentesi è necessaria per effettuare un passaggio dalla persona diversamente abile, alla diversità, che allo stesso modo nel corso del secolo scorso ha conosciuto diverse definizioni e modelli di riferimento.
    A questo punto, ci sembra dovuto e necessario, affrontare l’evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel tempo; analizzeremo quindi il modello biomedico, quello sociale ed infine il modello biopsicosociale.
    Il modello medico della disabilità la definisce come un impedimento biologico permanente e considera gli individui con disabilità come meno abili rispetto a quelli che sono guariti da una malattia o che sono non disabili. Le persone disabili sono considerate come “anormali”, di conseguenza la disabilità è come una deviazione dalla normalità e dalla norma (anche se a nostro avviso il concetto stesso di normalità è un prodotto culturale). Il modello medico viene associato all’ ICDH (International Classification of Impairment Disability and Handicap. Il concetto fondamentale dell’ICIDH è basato sulla sequenza:
    Malattia -> Menomazione -> Disabilità -> Handicap.
    Questo schema portava però ad una errata interpretazione dei rapporti intercorrenti tra ciò che veniva classificato nei tre ambiti come conseguenza della malattia, in quanto le frecce, evidenziandone un nesso causale, sembravano voler presentare una situazione che necessariamente evolveva nel tempo in una determinata maniera.
    Da queste considerazioni emerge, pertanto, che l’approccio medico induce ad una medicalizzazione ed individualizzazione della disabilità senza considerare variabili di tipo ambientali o sociali. Si segna così, tra gli anni Settanta/Ottanta, il passaggio dal modello biomedico a quello sociale, secondo cui i fattori contestuali, fattori esterni-ambientali e fattori interni-personali, costituivano delle componenti importanti del processo di handicap. La prospettiva sociale, infatti, muove dalla necessità di considerare che per garantire la partecipazione del soggetto con diversa abilità, non bisogna cambiare il soggetto stesso, quanto piuttosto l’accessibilità delle strutture e degli atteggiamenti.
    Tuttavia sia il modello biomedico che quello sociale risultano parziali, evidenziando dei limiti. Ecco che nel 1977 lo psichiatra americano George Engel sviluppò una nuova prospettiva, definita: “Modello Biopsicosociale”, in cui la salute viene valutata complessivamente secondo tre dimensioni: biologica, individuale e sociale.( sulla base della concezione multidimensionale della salute descritta nel 1947 dal WHO (World Health Organization)
    È in sostanza il passaggio da un approccio individuale ad uno socio-relazionale nello studio della disabilità. La disabilità viene intesa, infatti, come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, fattori personali e fattori ambientali, che rappresentano le circostanze in cui egli vive. Ne consegue che ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale.
    È su questa base che nel maggio del 2001 l’OMS ha pubblicato un nuovo manuale di classificazione: l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health). A differenza della precedente Classificazione ICIDH, l’ICF non è una classificazione delle "conseguenze delle malattie" ma delle "componenti della salute".
    In tal senso l’ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte le persone, proprio perché fornisce informazioni che descrivono il funzionamento umano e le sue restrizioni.
    Alla luce di quanto detto e riprendendo il pensiero di Pfeiffer, nessun modello singolo può totalmente spiegare la disabilità. Quelli che abbiamo riportato, infatti, costituiscono l’uno l’evoluzione del precedente. Un’ulteriore modello ritenuto valido per definire la disabilità è il “modello delle capability” formulato a metà degli anni Ottanta da Amartya Sen, professore di economia e filosofia ad Harvard insignito del Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Con l’espressione capabilities, il professor Sen intende la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. La conclusione a cui Sen perviene è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita.
    Patricia Welch e Lorella Terzi guardano alla disabilità utilizzando tale approccio; pertanto muovono da una considerazione di essa come ad una possibile fonte di limitazione delle capability dell’individuo, proponendosi di valutare l’impatto che essa ha sulla posizione reciproca degli individui all’interno dei contesti istituzionali e sociali in cui sono inseriti. Quando una menomazione restringe i funzionamenti di base di una persona, o quando l’ambiente non le permette di superare tali restrizioni, allora anche la sua capability di perseguire gli obiettivi che essa reputa di valore per
    la sua esistenza è compromessa. La società deve quindi intervenire per fare in modo che la persona sia in grado di perseguire tali obiettivi.
    Infine come sostiene Mitra l’approccio delle capability si costituisce come un tentativo di includere fattori di tipo economico tra le determinanti della disabilità. La domanda posta da Mitra è: “in che modo l’ambiente economico e le risorse disponibili possono influenzare direttamente l’essere o meno disabile di una persona?”.
    La questione di Mitra ci ha rimandato ad una lezione del corso “Politiche sociali per l’ inserimento del disabile”, durante la quale venne proposto il film “Si può fare”.
    Il film racconta la storia di un imprenditore Nello (interpretato da Claudio Bisio) che perdendo la propria prestigiosa posizione, si ritrova a dirigere una cooperativa di ex pazienti di ospedali psichiatrici, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, il direttore Nello, spinge ciascun socio della cooperativa a imparare un mestiere affinchè possa sottrarsi alle elemosine dell’assistenza.

    Dal film si evince l’importanza dell’ambiente economico, ed in particolare la possibilità per un soggetto con diversa abilità di ricevere uno stipendio mensile, tale da favorirgli la vera integrazione nella società.
    L’ambiente sociale, culturale ed economico sono centrali affinchè possa determinarsi il processo di integrazione e soprattutto affinchè il soggetto in primis non si senta, come negli anni addietro etichettata come “persona menomata” ma semplicemente come una persona alla pari degli altri.

    Gruppo composto da :
    Tiziana Piscitelli
    Francesca Manfellotti
    Roberta Maddaloni
    Simona Giuseppa Lamberti



    Lavoro esauriente e complesso
    la docente
    Erika Hoffmann
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  Erika Hoffmann Ven Feb 03, 2012 6:06 pm

    "L'ontologia della differenza nella relazione tras-formativa".

    "In un tempo molto breve ,abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile ad una società attraversata da molteplici cambiamenti e discontinuità. I grandi problemi della condizione umana: il degrado ambientale,il caos climatico,le crisi energetiche,la distribuzione ineguale delle risorse,la salute,la malattia,il confronto di culture e religioni,i dilemmi bioetici,possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo tra le nazioni,ma anche tra le discipline e le culture." E'quanto affermato dal ministro Fioroni nella premessa alle indicazioni nazionali per il curricolo del 2007.
    In questa prospettiva "la differenza",condizione della vita nei suoi aspetti biologici come in quelli sociali,ci aiuta a cogliere la struttura che connette la molteplicità all'unità. Infatti se non distinguessimo le differenze interne a un fenomeno,non potremmo coglierne l'impianto costitutivo. Il concetto di differenza chiama la pedagogia a farne un valore di riferimento dal quale partire al fine di contrastare quelle tendenze unilaterali che forniscono soluzioni singolari a problemi plurali,senza trasmettere una visione d'insieme della realtà complessa. La risposta che la pedagogia deve dare è quella di un processo tras-formativo,che si occupi di fornire non tanto saperi sconnessi e specialistici,quanto le chiavi per "apprendere ad apprendere",per contestualizzare,globalizzare,affrontare le situazioni multidimensionali,così come per costruire mappe di conoscenze, rendendole continuamente coerenti con la rapida evoluzione dei saperi ,degli scenari sociali e professionali presenti e futuri.Parlare di differenza nell'ambito di un processo tras-formativo,significa anche prendere in considerazione quei fenomeni che oggi tendono a distruggere le diversità,leggittimando questa distruzione come progresso ,miglioramento. E' il caso della globalizzazione,che annienta le comunità ,le tradizioni,le lingue.Il sistema tende al pensiero unico,e ciò comporta una minaccia alla democrazia,che si basa sul diritto di scelta su opzioni differenti. A questo proposito Fioroni nella sezione"per una nuova cittadinanza" della sua premessa,afferma che obiettivo fondamentale del processo educativo, deve essere quello di valorizzare l'unicità e la singolarità dell'identità di ogni studente.Non basta secondo lui riconoscere e conservare le diversità preesistenti nella loro autonomia,ma sostenerne l'interazione e l' integrazione attraverso la conoscenza e il confronto, che non eluda convinzioni religiose,ruoli familiari,differenze biologiche.

    lavoro sufficiente
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty Re: ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio)

    Messaggio  cristinamallardo Ven Feb 03, 2012 6:39 pm

    Esercizio 2 Ben-essere Disabili
    Capitolo 6:Verso un’educazione inclusiva

    Lavoro svolto dal gruppo Mallardo Maria Cristina E Margherita D'auria

    L’articolo 3 della Costituzione italiana recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”Nel 2006 i rappresentati delle Nazioni Unite hanno approvato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, questa è stata ratificata anche dal nostro Paese. In essa si leggono una serie di principi volti ad assicurare un sistema di educazione inclusiva che accompagni tutta la vita e a tutti i livelli di apprendimento la persona disabile. Nelle Indicazioni nazionali per il curricolo emanate nel 2007 dal Miur si legge chiaramente che.” La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi per il successo scolastico di tutti gli studenti, con particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di disabilità e di svantaggio.” Lo psicologo Daria Ianes evidenzia che la scuola per diventare realmente inclusiva ha bisogno di “normalità divenuta speciale”, cioè che la scuola deve organizzarsi in modo tale da divenire “speciale” sempre. La visione inclusiva delle Indicazioni sottendono l’adozione di strumenti e metodologie che mirano all’interazione sociale e alla creazione di un gruppo classe cooperativo. Alle insegnanti spetta un ruolo fondamentale perché sono proprio loro che devono riconoscere le varie situazioni individuali, le difficoltà e i problemi di ogni singolo. Pertanto agli insegnanti si chiede una sempre maggiore preparazione culturale e un continuo aggiornamento in itinere delle proprie capacità. Le differenze individuali devono essere valorizzate e soprattutto bisogna evitare che queste si trasformino in difficoltà di apprendimento. Partendo dai principi dell’ICF e dal modello bio-psicologico, si considera l’allievo partendo dalle sue potenzialità e capacità, creando nel contesto scolastico tutte le condizioni affinchè questo diventi ambiente “inclusivo”.La persona è vista nei suoi molteplici aspetti, e considera elementi di svantaggio l’ambiente, la cultura, la persona e il suo contesto sociale. Per questo l’insegnante di sostegno non deve e non può essere l’unico che prende il carico il bambino con problemi, ma c’è bisogno della collaborazione sinergica di vari componenti, quali i docenti di classe, i genitori, la ASL, le associazioni di volontariato presenti nel territorio. Tutti insieme con un unico scopo, cioè quello di realizzare un progetto di vita che contribuisca e rendere “normale” e vivibile la vita di ciascun essere umano. Questo significa stilare un Piano Educativo Individualizzato in condivisione con tutti, perché anche l’alunno con disabilità ha il diritto di apprendere, di vivere in un contesto scolastico attrezzato, di interagire con personale qualificato e disponibile. Si legge ancora nelle Indicazioni Nazionali Per il Curricolo :”ogni alunno deve sentirsi riconosciuto, sostenuto e valorizzato.” Per quanto concerne il primo punto non è sempre facile riconoscere le difficoltà, se escludiamo i bambini con patologie gravi o disturbi evidenti, spesso i bambini con problemi particolari, come la dislessia spesso sono considerati solo poco studiosi o ancor peggio svogliati. Pertanto gli insegnanti devono far riferimento a tutte le proprie risorse per capire dove vi è un problema anche se non evidente. Il secondo passo è quello che fa riferimento al sostegno dell’alunno, bisogna guidarlo verso l’apprendimento attuando tutte le strategie e le risorse volte a valorizzare le capacità dei singoli. Ascoltare, comprendere, aiutare ma soprattutto creare una classe resiliente, cioè luogo dove tutti possono collaborare, aiutarsi reciprocamente, aiutare l’altro in difficoltà, incoraggiare positivamente per aumentare la stima di se e delle proprie capacità. Molto spesso però non è facile adottare tutto ciò, i tempi ristretti, gli spazi contenuti e la necessità di portare comunque avanti la classe , spesso fanno perdere di vista tutti questi elementi determinanti per l’inclusione. Molte cose sono cambiate da quando i bambini con gravi difficoltà venivano esclusi o relegati nelle scuole speciali, oggi tutti hanno diritto all’apprendimento e tutti devono avere le stesse opportunità, non siamo ancora verso una inclusività totale, ma molto è stato già fatto basta solo continuare su questa strada e non arrendersi di fronte alle difficoltà


    ottime considerazioni
    personalizzate e ragionate
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    alessandrasferrazza


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    Messaggio  alessandrasferrazza Ven Feb 03, 2012 8:14 pm

    Semantica
    della differenza

    Capitolo 1
    L’ontologia della differenza
    nella relazione tras–formativa

    Per la psicolgia sociale il termine differenza indica tematiche quali la privatizzazione di beni pubblici quali l'acqua, la formazione, e tutto ciò che ne deriva dalla globalizzazione, come guerre, impero delle multinazionali e il declinio della politica.
    Fondamentale per l'educazione è fornire le chiavi di lettura del mondo, per ciò Morin promuove il sapere integrato, che permette di organizzare i saperi e collegare le varie parti del mondo, poichè il fine ultimo non sono tanto le mere conoscenze, quanto l'interconnessione che vi è tra esse.
    Mettendo in rilievo il concetto di diversità, si affrontano le sue diverse sfaccettature.
    La scuola deve aiutare l’individuo a elaborare mappe concettuali ampie e flessibili, così da sapersi barcamenare con le molteplici identità diverse da sé, che incontrerà nel corso della sua vita.
    La diversità è insita nella natura, ed infatti è solo grazie alla varietà di elementi che la compongono, che l’ecosistema regge.
    L’individuo è unico, e la sua esistenza, intesa come insieme di relazioni che si instaurano nella vita, è data dall’essere allo stesso tempo vario, poiché si comporta in maniere sempre diverse, ma pur sempre uniche, rispetto agli avvenimenti che gli si presentano nel corso della vita.

    Credendo molto nel motto “homo faber fortunae suae”, mi ritrovo a pieno in ciò che in questo capitolo si affronta, con l'avento della globalizzazione, e tutto ciò che ne consegue, è giusto avere una educazione ed una formazione d'insieme, per poter agire come meglio conviene, e in perciò la scuola in primis deve fornirne gli stumenti.

    lavoro sufficientemente ragionato
    la docente
    cinziamariniello
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    ES. 2 - BEN-ESSERE DISABILI (chiude 3 febbraio) - Pagina 16 Empty ES. n° 2 - BEN- ESSERE DISABLI

    Messaggio  cinziamariniello Ven Feb 03, 2012 10:13 pm

    In un mondo globalizzato ,dove la condizione umana sembra stemperarsi in una dimensione generale,astratta, dai contorni indeterminati a volte virtuali,è indispensabile possedere una visione chiara e prospettica del modo con il quale vengono affrontate e impostate le situazioni riguardanti le diverse abilità. Il termine disabilità ha subito notevoli cambiamenti nel corso del tempo. In un passato non molto remoto il termine disabilità era contrapposto a quello di normalità ,quindi il disabile era colui che dietro certificazione medica presentava una malattia deviante dalla norma. Parliamo in questo caso del modello bio-medico,in cui la figura centrale era rappresentata dal medico,il quale diagnosticava la disabilità di un paziente su basi biologiche, su attestazioni scientifiche. Il disabile secondo il modello bio-medico era colui che rientrava nelle categorie di :sordi, ciechi,paraplegici,malati mentali. Contrapposto al modello bio-medico,abbiamo il modello sociale sorto negli anni '50 in America.Con questo modello si parla di disabilità intesa come chiusura della società nei confronti delle persone disabili, in parole semplici, sono le barriere architettoniche presenti nella società che causano disabilità. In questo modello si prospetta anche una visione negativa nei confronti degli istituti che accoglievano i disabili in quanto procurano passività al soggetto stesso. Grazie alle lotte sociali che hanno cavalcato le scene degli anni '60-'70, si è arrivati ad una rivalutazione dell'individuo, della sua conquista dell'identità personale attraverso tutti i settori da quello politico a quello lavorativo. E' su questo scenario che nasce il modello bio-psico-sociale, il quale affronta il tema della disabilità come un'interazione tra malattia e ambiente sociale in cui il soggetto è collocato. Inoltre il modello bio-psico-sociale si propone sotto l'aspetto dinamico in quanto sostiene l' importanza dell'interazioni individuo/ambiente, contrapponendosi alla rigidità e staticità di un approccio causa/effetto. L'ICF dall'inglese "INTERNATIONAL CLASSIFICATION OF FUNCTIONING,DISABILITY AND HEALT" viene ad identificarsi con il modello bio-psico-sociale.
    L'ICF identifica lo stato di salute dipendente da tre elementi:l'integrità delle funzioni e strutture corporee, la capacità di svolgere delle attività, la possibilità di partecipare alla vita sociale. L'ICF viene utilizzato come riferimento per una politica inclusiva e per l'elaborazione di progetti finalizzati al miglioramento della qualità della vita, nella prospettiva di offrire pari opportunità ai soggetti con disabilità. L'approccio alla disabilità fornito dall'ICF presenta dei tratti comuni con il CAPABILITY APPROACH di Sen. Questo approccio restituisce dignità alla persona attraverso opportunità pratiche, intese come opportunità di cui godere. Inoltre offre agli individui la capacità di raggiungere stati di "essere" e di "fare", che rendono la vita degna di essere vissuta. Sen si occupa del ben-essere della persona e dei sui benefici. In questo modo viene portata avanti la cultura dell' inclusività, tenendo conto dell'approccio globale dello stato di salute della persona nel coinvolgimento di tutte le figure istituzionali. Alla scuola, la quale attraverso un progetto di vita per la crescita personale e sociale dell'alunno con disabilità, spetta il compito di aprire l'orizzonte per "un futuro possibile", i quanto la disabilità deve essere usata solo come terminologia e non condizione di essere.

    Gruppo formato da CINZIA MARINIELLO & RAPACCIUOLO ROSA
    [color=red considerazioni
    ragionate
    la docente[/color]

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